Rica Cerbarano
Leggi i suoi articoliOgni estate, nel cuore della campagna umbra, un gruppo variegato di professionisti si incontra per discutere «lo stato dell’arte» della fotografia. Dodici ospiti internazionali (mai gli stessi) vengono invitati a prendere parte al progetto visionario Todi Circle, creato nel 2012 da William A. Ewing e Mario Santoro-Woith. Immersi in un’esperienza coinvolgente di cinque giorni, i partecipanti scandiscono il loro tempo tra tavole rotonde, conversazioni e momenti di condivisione informali.
Di fronte al linguaggio fotografico in continua mutazione, e calati in una realtà che si muove a una velocità incontrollabile, prendersi una pausa dalla voracità della routine lavorativa è un lusso raro. Qui, è possibile. C’è tutto il tempo per parlare e scambiarsi opinioni. Gli incontri non vengono registrati e non viene pubblicato un report riassuntivo, incoraggiando così il dialogo spontaneo e libero da preconcetti. Un’occasione di confronto tra addetti ai lavori davvero unica. In passato, sono stati coinvolti nomi di grande caratura, come Quentin Bajac, Penelope Umbrico, Thomas Demand, e anche qualche italiano, tra cui Massimo Vitali. Gli invitati di quest’anno sono figure altrettanto prestigiose: tra gli altri, Florence Bourgeous (direttrice di Paris Photo), Azu Nwagbogu (fondatore della African Artists’ Foundation, del Lagos Photo Festival, e quest’anno curatore del Padiglione del Benin alla Biennale di Venezia), Karolina Ziebinska-Lewandowska (curatrice del Warsaw Museum e in passato del Centre Pompidou), il grande fotografo Roger Ballen (in mostra fino al 25 settembre a Todi, presso la Galleria Giampaolo Abbondio).
Abbiamo incontrato William A. Ewing durante l’ultimo giorno dell’edizione di quest’anno, passando qualche ora nella grande tenuta di 20 ettari in cui si svolgono la maggior parte delle giornate.
Partiamo dalle origini. Come è nato Todi Circle?
Nel 2005, mentre ero direttore del Musée de l’Elysée, sono venuto a Todi con la mia famiglia, invitato da Mario Santoro-Woith, un artista eccezionale che avevo conosciuto qualche anno prima a Losanna e che avevo esposto. Mentre alloggiavo nel castello della sua famiglia alle porte di Todi, gli feci notare che quel luogo sarebbe stato ideale per una sorta di ritiro, dove gli addetti ai lavori avrebbero potuto discutere di fotografia in un’atmosfera tranquilla e affascinante. Da quel momento abbiamo continuato a parlarne anno dopo anno, finché nel 2010 Mario mi ha incalzato dicendo: «Bill, o lo facciamo, o smettiamo di parlarne!». E così ci siamo buttati! Abbiamo iniziato nel 2012 e, a parte due incontri saltati a causa di Covid, l’abbiamo ripetuto ogni anno. Undici, finora. Ma se devo esprimere una motivazione più profonda alla base di questo progetto, guardo indietro al mio percorso professionale: credo che la mia prima esperienza nella gestione di un centro d’arte, Optica, a Montreal, e poi come curatore all’ICP di New York, siano state fondamentali. Nel corso degli anni abbiamo organizzato molti incontri e conferenze con persone di grande spessore: André Kertész, Elliott Erwitt, Berenice Abbott, Duane Michals, Robert Doisneau, Cornell Capa... Non ho mai dimenticato quelle lezioni: fate parlare le persone insieme!
Quali sono i criteri con cui vengono selezionati gli ospiti?
Ogni anno invitiamo 12 persone, ognuna proveniente da un settore diverso: un curatore, un collezionista, uno studioso, un critico, un editore, un fotografo, un artista che usa la fotografia, e così via. Cerco di creare un mix interessante di persone, personalità, competenze. La differenza fondamentale di Todi rispetto a simposi ed eventi come festival e fiere è che solitamente in quei casi gli incontri sono molto fugaci, anche se preziosi. Ci si scambia qualche informazione durante l’aperitivo o la cena, ma poi di solito l’interazione finisce lì. A Todi, invece, gli ospiti confermano la loro partecipazione per tutti i cinque giorni; anche un solo giorno di assenza avrebbe un impatto negativo sulle dinamiche sociali. Dopo una settimana, il gruppo diventa una sorta di famiglia. Per quanto riguarda la questione dell’età e dell’esperienza, cerchiamo di riunire professionisti di diverse generazioni. Infine, siamo molto attenti all’internazionalità degli ospiti. Ad esempio, quest’anno abbiamo avuto 3 ospiti provenienti dall’Europa centrale e orientale e per la prima volta un sudamericano. Finora abbiamo ospitato 35 nazionalità e 135 Todi Fellows.
Nel concreto, come si strutturano i cinque giorni di «think tank»?
Le conversazioni sono concepite in modo orizzontale e non gerarchico. Il mio ruolo è quello di far fluire la conversazione. Il tema di ogni giorno è volutamente vago: «Solidità» (ciò che è solido nel nostro campo) «Fragilità» (ciò che è vulnerabile), «Guadagno» (come ognuno di noi si guadagna da vivere), e altro ancora. Chiediamo al gruppo: quali sono le cose che stanno realmente accadendo nel mondo della fotografia? Così inizia il dibattito. Ci riuniamo intorno a un tavolo la mattina e due pomeriggi. Negli altri momenti andiamo in gita e questo dà a tutti la possibilità di parlare in gruppi di due o tre persone. La sera ceniamo a casa degli Amici di Todi, per la maggior parte collezionisti d’arte che ci supportano.
Qual è l’obiettivo di questo progetto?
La fotografia sta mutando rapidamente, in tutti i sensi. Se vogliamo che il settore progredisca in modo positivo, dobbiamo innanzitutto cercare di capire dove si trova ora e dove si sta dirigendo. Ecco perché parliamo dei «futuri» della fotografia. Questo plurale è molto importante. Non mi faccio illusioni, so che Todi Circle è un’operazione su scala modesta e solo una delle tante iniziative in campo. Sappiamo che non cambierà il mondo. L’obiettivo è semplicemente capire come funzionano le cose discutendone con i professionisti del settore. Come stanno cambiando i musei? Perché si sceglie di organizzare una mostra piuttosto che un’altra? Quali sono le implicazioni politiche? Come si sostiene finanziariamente un festival? Ogni ospite porta la propria esperienza per condividerla con gli altri.
Quali sono le vostre fonti di finanziamento?
Inizialmente, per sette anni, Todi Circle è stato finanziato dalla Fondation Carène. Successivamente, la Foundation for the Exhibition of Photography, guidata da Todd Brandow, è diventata nostra sostenitrice e, dopo qualche anno, anche la Muus Collection di Michael Sonnenfedlt, grazie all’incontro con Richard M. Grosbard. Ma abbiamo ricevuto contributi anche da diversi collezionisti privati.
Vista la sua lunga esperienza nel settore, non posso esimermi dal chiederle: che cosa pensa della fotografia contemporanea?
Direi che è viva e vegeta! Nonostante gli ostacoli, tra cui i problemi di sostenibilità economica, i fotografi e coloro che lavorano nel settore vanno avanti. Ma le gallerie sono in difficoltà, i musei sono instabili, la critica sta scomparendo... Personalmente però, credo che le questioni sociali dogmatiche e il politicamente corretto (se portato all’estremo) stiano, in un certo senso, strangolando la creatività, costringendola in una scatola convenzionale. Ma piuttosto che giudicare, cerco di capire le ragioni che stanno dietro alle torsioni e alle svolte.
Guardando al futuro della fotografia, cosa dovremmo aspettarci?
Voglio rispondere con un’analogia. Nella serie «The Crown», a un certo punto, il Principe Filippo incontra gli astronauti che sono stati sulla luna. Pone loro domande profonde e filosofiche, volendo ascoltare da loro pensieri profondi. Ma sono solo ragazzi che sanno pilotare un’astronave, niente di più. Anch’io mi sento un po’ così. Non oso prevedere quale sarà l’evoluzione della fotografia, ma ne seguo gli sviluppi giorno per giorno. Va bene sognare «in grande», ma è anche saggio tenere i piedi per terra. Sono convinto che il mondo cambierà, ma non in modo catastrofico, e che tra due anni avremo più o meno le stesse conversazioni che abbiamo avuto qui a Todi quest’anno.
Secondo lei, quale sarà il campo che ci riserverà maggiori sorprese?
Non mi sento in grado di prevedere quale sarà l’area più interessante (astronomia, botanica, zoologia, scienza, arte, IA) ma so che saranno gli artisti a guidare il cambiamento. Marshall McLuhan li ha descritti come «le antenne della razza umana». Abbiamo bisogno di loro perché ci indicano le strade da percorrere. E noi come specie sembriamo saperlo: se chiedete a qualcuno di nominare 50 artisti del secolo scorso, vi dirà Brancusi, Picasso, Braque, Andy Warhol, O’Keefe, Francis Bacon, ecc. Ma se chiedete loro di nominare 50 politici del XX secolo, dopo poco i nomi finiranno. La fama dei politici svanisce con i loro governi, mentre quella degli artisti rimane per secoli.
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