Una veduta dell’allestimento della mostra «Olafur Eliasson. Nel tuo tempo» a Palazzo Strozzi: in primo piano, «Firefly Double-polyhedron Sphere Experiment» (2020) e, sullo sfondo, «Colour Spectrum Kaleidoscope» (2003) © Foto Ela Bialkowska

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Una veduta dell’allestimento della mostra «Olafur Eliasson. Nel tuo tempo» a Palazzo Strozzi: in primo piano, «Firefly Double-polyhedron Sphere Experiment» (2020) e, sullo sfondo, «Colour Spectrum Kaleidoscope» (2003) © Foto Ela Bialkowska

Il modello di Eliasson è Leonardo

La vera ispirazione delle macchine luminose di Olafur Eliasson sono le luci rotanti e stroboscopiche che negli anni Ottanta della sua adolescenza si stagliavano nel cielo delle discoteche

S’intitola «Beauty» l’opera-manifesto realizzata nel 1993 da un ventiseienne Olafur Eliasson. Lo spettatore fende una nebbiolina che un faretto produce illuminando una lieve pioggia d’acqua: a seconda del tempo con cui la attraversiamo intravediamo o meno, attorno a noi, un arcobaleno. Microscopico ma autentico: non l’immagine di un arcobaleno. Il cielo in una stanza, insomma. Materialmente lo spettatore, ma si dirà meglio, allora, l’utente, si fa in questo modo coautore dell’opera. Resterà questo, sino ai fasti odierni, il punto d’onore di Eliasson: non produrre uno «spettacolo» (l’immagine del cielo, per esempio, da sempre cavallo di battaglia dei pittori: da Masolino a Magritte passando per Turner) bensì un’esperienza: un modello tridimensionale che, come una scultura, si può contemplare da tutti i lati e, più di una scultura, si può attraversare. Dopo aver «visto» (se il termine è appropriato) «Beauty» ci si deterge l’acqua dalla fronte: con un sorriso impossibile da reprimere.

La fama mondiale arriva a Eliasson con «The Weather Project», l’installazione del 2003 alla Tate Modern di Londra, si deve proprio a questa sua impareggiabile capacità di far entrare lo spettatore nell’opera: in quel caso nella luce e nel tepore di un sole in miniatura sospeso nello spazio, immenso sì ma delimitato, della Turbine Hall. In questo modo l’artista danese di origine islandese reinterpreta in modo geniale la tradizione dell’arte relazionale e immersiva: facendosi benigno demiurgo di un «tempo» che lo spettatore può vivere, almeno per il «tempo» che passa nello spazio allestito dall’artista, come vive il «tempo» che trova al suo esterno. Non è un caso che il titolo della grande mostra di Palazzo Strozzi sia lasciato in italiano: perché tempo, nella nostra lingua, rende tanto il senso dell’inglese time quanto quello di weather. Per il tempo che accorderemo a questa esperienza saremo partecipi di un tempo diverso, artificiale e diciamo sperimentale (in senso galileiano), ma effettivo.

Si dice sempre «site specific» ma con Eliasson il site, semplicemente, è parte dell’opera. Nel bel catalogo edito da Marsilio la voce dell’artista, e la sua storia riepilogata in un visual essay, s’intrecciano con quella dotta e cattivante del curatore Arturo Galansino: il quale fa notare come i suoi paraphernalia, in alcuni casi deliberatamente, in altri per una non meno eloquente eterogenesi dei fini, riprendano tecniche e dispositivi della storia dell’arte; in particolare di quell’Umanesimo rinascimentale di cui Palazzo Strozzi, per Galansino, è «edificio simbolo».

Il caso più impressionante è quello di «Firefly Double-polyhedron Sphere Experiment» del 2020, un lampadario in cui due poliedri ruotano l’uno all’interno dell’altro, facendo baluginare «lucciole» artificiali attorno a chi contempla l’opera: uno dei due riproduce la struttura di uno dei «solidi platonici» che Leonardo aveva disegnato per il trattato De divina proportione di Luca Pacioli (il «rombicubottaedro» a 26 facce è riprodotto nel misterioso ritratto del frate scienziato conservato a Capodimonte, che oggi qualcuno ipotizza di mano direttamente leonardesca...). Nella stessa sala figurano altri marchingegni ottici definiti «caleidoscopi»: e «caleidorami» chiama Eliasson le sue «macchine» più recenti, esposte in parallelo nell’altra sua mostra italiana, alla Manica Lunga del Castello di Rivoli («Orizzonti tremanti», a cura di Marcella Beccaria, fino al 26 marzo).

Nel caleidoscopio è l’utente a conferire movimento, colore e forma ai frammenti di specchio al suo interno; nella sua semplicità, è una macchina che trasforma lo spazio moltiplicando la luce. Così fanno le macchine di Eliasson con lo spazio per antonomasia severo del Palazzo quattrocentesco: del quale sovvertono l’ossessione ortogonale con forme curvilinee e cangianti (come «Under the Weather», la grande ellisse marezzata moiré che ci accoglie nel cortile d’ingresso), oppure con le fantasmagorie che qui pallidamente ho tentato di descrivere: da quelle più lambiccate a quelle, semplicissime ma non meno ammalianti, del teatro d’ombra prodotto sulle pareti dalle luci esterne attraverso i pesanti e irregolari vetri delle finestre del palazzo.

All’inizio del catalogo Eliasson definisce la mostra «una coreografia», e poi ricorda come da ragazzo, a Copenaghen, «praticasse la street dance», un genere opposto al balletto classico. Se in questo la cornice della scena è codificata e rigida, in strada ogni ballerino reinventa lo spazio in cui si muove, modificandone di volta in volta forma ed estensione: «Da allora, l’idea di rappresentare attivamente lo spazio per mezzo del corpo, di creare lo spazio e renderlo percepibile, è sempre stata cruciale per me». Allora ho capito qual è, consapevole o meno, il vero modello delle macchine luminose di Eliasson: le luci rotanti e stroboscopiche che negli anni Ottanta della sua (e mia) adolescenza si stagliavano nel cielo delle discoteche. Spazi chiusi ma, a ogni disco, reinventati dai corpi che li riempivano di sguardi e desideri. Era stato Leonardo il primo, il più grande dei deejay.

Una veduta dell’allestimento della mostra «Olafur Eliasson. Nel tuo tempo» a Palazzo Strozzi: in primo piano, «Firefly Double-polyhedron Sphere Experiment» (2020) e, sullo sfondo, «Colour Spectrum Kaleidoscope» (2003) © Foto Ela Bialkowska

Andrea Cortellessa, 20 dicembre 2022 | © Riproduzione riservata

Il modello di Eliasson è Leonardo | Andrea Cortellessa

Il modello di Eliasson è Leonardo | Andrea Cortellessa