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Due copertine di altrettante edizioni di «Storia e leggende napoletane» di Benedetto Croce edito da Adelphi. Da sinistra: edizione del 1990 con l’«Allegoria della Simulazione» di Lorenzo Lippi, Museo di Angers; riedizione del 1999 con «Case a Napoli» (1872) di Thomas Jones

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Due copertine di altrettante edizioni di «Storia e leggende napoletane» di Benedetto Croce edito da Adelphi. Da sinistra: edizione del 1990 con l’«Allegoria della Simulazione» di Lorenzo Lippi, Museo di Angers; riedizione del 1999 con «Case a Napoli» (1872) di Thomas Jones

Il dottor Divago: le leggende napoletane? Meritano una maschera fiorentina

Divagazioni letterarie e pittoriche di Stefano Causa

Stefano Causa

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Tra i tanti assiomi irrefutabili di Benedetto Croce ce n’è uno che rispunta e calza col genere di scavo che, chi più chi meno, ciascuno di noi intraprende ogni giorno coi luoghi, i libri, i quadri, i volti e i ricordi: «Il legame sentimentale col passato prepara e aiuta l’intelligenza storica, condizione di ogni vero avanzamento civile, e soprattutto assai ingentilisce gli animi». Bello, forte, giusto. Sta in Storie e leggende napoletane uno dei titoli indispensabili su Napoli e sul metodo di Croce. E fin qui tutti d’accordo: specie chi è cresciuto con questo libro del 1915 (Croce aveva superato i cinquant’anni) uscito in prima edizione nel 1919; riveduto e accresciuto tra le due guerre, fino all’edizione Laterza del 1948.

Trent’anni fa un carissimo amico, Tonino Cioffi, che al Suor Orsola Benincasa di Napoli si occupava di educazione ai Beni Culturali non trovava di meglio, in avvio dei corsi universitari, che raccontare passo dopo passo, citandolo a memoria o parafrasandolo, il saggio iniziale, «Un angolo di Napoli» (1912) che s’incunea bene nel quadro della letteratura italiana del secondo decennio, tra una novella di Pirandello e il D’Annunzio della Contemplazione della morte. Dopodiché, quando arrivava a pronunziare, con comprensibile commozione, l’assioma da cui siamo partiti, allora sì che, per dirla come nel trailer di film, «il ghiaccio si rompeva», i cuori si scaldavano e si accendevano i motori.

Valore della pagina di Croce a parte, non ci sarebbe nulla di male a usarlo ancora come prima immersione in quel centro storico che, negli ultimi dieci anni, è diventato inopinatamente, si perdoni il termine, un attrattore turistico. Ciò che non si può dire di quando Croce, che da giovane abitava sull’acropoli del Vomero, prendeva un asinello per scendere «giù a Napoli» e andare a lavorare in Archivio di Stato mentre, nelle chiese e nei palazzi del centro si avventuravano in pochi (e tra questi un piemontese che Croce ben conosceva come lo scrittore storico dell’arte Roberto Longhi). Storie e leggende napoletane è, dunque, anche una guida particolare e precoce. Cosa mettergli in copertina dopo quelle severissime e asciutte di casa Laterza?

Roberto Calasso, che accolse i saggi sotto la tesa di Adelphi nel 1990 affidandone la curatela a Giuseppe Galasso, optò per una scelta che vale come apertura di merito e, di riflesso, lezione di storia dell’arte. Scansò, inutile dirlo, la lezione più facile suggerendo una lettura diversa. Sebbene avesse dozzine di quadri tratti da mostre sul Seicento tenutesi a Napoli e da Napoli e non avesse che da sfogliarne i cataloghi; e con tutto che, a monte, avrebbe potuto pescare l’immagine di un monumento, un ritratto, un sepolcro citato in questi undici paragrafi perfetti, mise una crocetta su un quadro rigorosamente non napoletano e che proietta il libro in una dimensione più ricca e avventurosa.

Calasso sceglie uno dei capolavori del Seicento fiorentino custoditi nei musei provinciali francesi: l’«Allegoria della Simulazione» di Lorenzo Lippi del Museo di Angers, tra Tours e Nantes. E da quel momento, per il lettore italiano il viatico napoletano di Croce si fregia di un biglietto da visita fiorentino. Ma, si badi: sui generis. Lippi è pittore meno noto di quanto meriti; gran purista che, nel 1640 o giù di lì, tira fuori questa figura femminile che tiene maschera e melograno e che se avessimo incontrato a Napoli non avremmo esitato ad attribuire a Salvator Rosa. E se è noto che Lippi e Rosa si frequentassero a Firenze, le due città non sono mai state così allacciate nella pittura di inoltrato Seicento. Bene. 

La partita iconografica delle passeggiate napoletane di Croce avrebbe potuto anche chiudersi qui, parlando di copertine scicchissime e intelligenti. Ma nella riedizione del 1999, Calasso lascia a casa Lippi e lo squadrone dei seicentisti, affidandosi a uno squarcio del pittore gallese Thomas Jones del 1872: «Case a Napoli». Lippi o Jones? Jones o Lippi? Decidete voi il lasciapassare migliore per accompagnare, e farsi accompagnare, da Croce lungo i vicoli della città.

Stefano Causa, 04 ottobre 2024 | © Riproduzione riservata

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