Stefano Causa
Leggi i suoi articoliGli anni ’80 del secolo scorso? Mancavano i tutorial che, oggi, ti instradano su tutto: dal tiramisù al giro di do alla chitarra del Gatto e la volpe. Ma cosa scrivere nella tesi: a questo più o meno faticosamente, per gradi, riuscivamo ad arrivarci. Sfoggiavamo i ventitré anni e non avremmo permesso a nessuno di dire che non fosse l’età più bella. Non c’erano i motori di ricerca ma, nei casi migliori, biblioteche, librerie, case di amici fornite, libri prestati, comprati o rubati; e c’erano le bancarelle con i Maestri del colore anche se, per chi studiasse storia dell’arte, ossia lettere moderne con indirizzo storico artistico, l’Italia si divideva in città e regioni con biblioteche e città e regioni senza biblioteche. Roma e Firenze con le roccaforti di Hertziana e Istituto Tedesco le avevano, di specializzate, ed erano i capoluoghi italiani della disciplina. La questione meridionale non toccava solo gli argomenti, ma gli storici d’arte.
Sapevamo più o meno cosa scrivere, insomma. Ma in che modo e stile: quello era un altro paio di maniche. La bibliografia, le note, se a piè o alla fine, l’indice, la punteggiatura, il numero e l’interlinea. Da dove cominciare?
Da tempo non sentiamo il bisogno di riaprire un libro di quasi mezzo secolo fa, che ci soccorse quando ci rendemmo conto di non aver idea di come venire a capo del finale di partita universitario, intuito che sulla questione di come mettere la tavola una volta cucinato non fosse elegante disturbare docenti e assistenti (Umberto Eco, Come si fa una tesi di laurea. Le materie umanistiche, Milano 1977; ristampato nel 2017 da La Nave di Teseo). Per chi scrive si era passati dai padelloni in vinile ai cd (se si parli di sottofondo) e il computer (se di scrittura) stava soppiantando la «Valentine». Nessuno navigava (se non su natante), tutti scaricavano (in un luogo deputato della casa). In mancanza dei cellulari, quando ci si distraeva dal video lo sguardo cadeva sugli oggetti della camera, sulla chitarra appoggiata al muro o sul dorso del Manuale delle giovani marmotte nell’edizione originale (uno dei pochi classici italiani del secondo ‘900 che non ha mai smesso di dire quello che ha da dire). Non era meglio né peggio. Era diverso. Chissà cosa direbbe Eco di ciò che sembra, oggi, la vera divaricazione tra la tesi di età analogica e digitale: i ringraziamenti a fine lavoro. Neanche ci pensavamo e se non ci avessero ricordato che era prassi, riconoscenza, o bon ton, neanche li avremmo messi.
Come una dedica che cresce anno dopo anno pare siano oggi la prima cosa da sbrigare come atto scaramantico (scrivo subito, in principio, ciò che comparirà alla fine, come il cane con la lepre). E guai a liquidarli come un dazio. A soppesarli senza cinismo, sono teneri quanto rivelatori. E spesso formano la parte più succosa, la ciccia di un elaborato, se fanno emergere qualcosa dell’allievo che non sempre il docente, anche il più sensibile, sa o vuole capire. Dai nonni ai fratelli più piccoli: è nei ringraziamenti che si ricompatta il nucleo familiare. Come pure sale agli onori di una menzione il piccolo nucleo, il petit clan di colleghi, ormai quasi amici santificati per aver supportato e sopportato durante l’iter di preparazione del materiale e scrittura. C’è chi ringrazia Dio o il proprio cane e non mancano saporitissime coloriture dialettali, a riprova che vocazione e coloritura regionalistica sono un patrimonio da salvare e rispuntano fuori non solo sui campi di calcio.
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