Elena Correggia
Leggi i suoi articoliDefinito da Pierre Restany il «Leonardo» e il «Peter Pan» del design italiano, Bruno Munari sfugge in verità a univoche classificazioni. Figura geniale e poliedrica del ’900, fu artista, grafico, designer, ma anche scrittore, docente, pedagogista. Un instancabile creativo che non si precludeva ambiti a cui applicare la sua mente fervida. Uno sperimentatore a cui è attualmente dedicata la mostra «Bruno Munari. Tutto», curata da Marco Meneguzzo e Stefano Roffi, visitabile fino al 30 giugno alla Fondazione Magnani-Rocca di Mamiano di Traversetolo (Pr). Un’esposizione che segue quella appena conclusa nell’Art House di Eataly a Verona, intitolata «Bruno Munari. La leggerezza dell’arte», a cura di Alberto Salvadori e Luca Zaffarano e che testimonia l’attenzione crescente della critica nei confronti dell’autore delle «Macchine inutili» e di altre numerose invenzioni. Un’attenzione che però, per svariati motivi, non è ancora stata accompagnata da un pieno riconoscimento in termini di mercato.
«Sulla versatilità di Munari insistono un po’ tutte le mostre che negli ultimi 6-7 anni hanno contribuito a riaccendere l’interesse, sia a livello nazionale sia internazionale, per un artista che vanta opere al MoMA di New York ed è apprezzato anche in Sudamerica e in Giappone, commenta Carlo Repetto di Repetto Gallery di Lugano. I suoi lavori però sono poco riconoscibili, mai uguali a sé stessi e in tempi in cui la ripetitività viene invece premiata dal mercato il grande pubblico fatica a identificare le sue opere di pittore e scultore. A ciò si aggiunge un problema oggettivo, la diffusione negli ultimi tempi di opere ambigue in termini di datazione (ad esempio degli anni ’50 che in realtà sono più tarde) o a lui attribuite senza esserlo. Ciò ha fortemente penalizzato il suo mercato e disamorato i collezionisti. Ora però i nipoti, che gestiscono i diritti di proprietà intellettuale, hanno deciso di rimettere ordine. A breve verrà annunciata la formazione di un Comitato scientifico per il rilascio delle autentiche, decisione che cambierà il corso delle sue quotazioni».
Quando compare un’opera storica, pubblicata e ben documentata, infatti, i riscontri non si fanno attendere. Il record in asta appartiene a una «Macchina inutile», battuta da Il Ponte a Milano nel 2016 e volata da una stima di 15-25mila euro a un’aggiudicazione di 190mila. Si tratta di una delle sue composizioni astratte fluttuanti che dagli anni ’30 indagano il rapporto tra forma, spazio e movimento anticipando, pur con un approccio differente, le intuizioni dei «mobile» di Calder e dell’arte cinetica. «Il nostro record per quell’opera storica ha fatto da apripista e alzato l’asticella, ma sul mercato sono poi circolati molti falsi, le autentiche in passato sono state rilasciate con leggerezza e ciò è stato deleterio, afferma Freddy Battino, capo dipartimento di arte moderna e contemporanea de Il Ponte. Bisogna quindi accostarsi al mercato di Munari con cautela, acquistando solo opere con una bibliografia e provenienza accertata, esposte in mostre storiche, meglio se del periodo in cui l’artista era in vita, dotate di etichette al retro vere (i retro dei falsi sono spesso tutti uguali) e soprattutto affidarsi a un esperto per verificare che l’opera sia autentica».
Oltre alle celebri «Macchine inutili» sono molto ricercati i lavori futuristi, basti pensare a «Buccia di Eva», testimonianza della prima produzione futurista di Munari, datata 1929-30, recentemente riemersa in una collezione privata e venduta da Il Ponte nel novembre 2023 per 176.400 euro (da una stima di 60-80mila). Fra le opere più iconiche di Munari «Concavo-Convesso» e il ciclo «Negativo-Positivo», queste ultime forme geometriche su tavola degli anni ’50 che se ben documentate in galleria possono avere quotazioni comprese dai 40mila ai 100-150mila euro per i formati più grandi. Apprezzate anche le «Ricostruzioni teoriche di un oggetto immaginario», su carta, oscillanti sempre sul mercato primario fra 5 e 15mila euro, mentre le colorate «Curve di Peano» degli anni ’70 costano cifre comprese fra 30 e 60mila euro. Senza contare lavori ancor più sperimentali, condotti per brevi periodi come le «Xerografie originali», che iniziò nel 1963-64 utilizzando nel processo creativo una macchina fotocopiatrice Fuji Xerox, muovendo e riproducendo sulla lastra di vetro le proprie mani e vari tipi di oggetti. La prima performance e la prima esposizione pubblica di opere realizzate con una macchina fotocopiatrice avvenne a Tokyo nel 1965. Sperimentazioni che lo porteranno a eseguire una performance alla Biennale di Venezia nel 1970. Le xerografie prodotte in quell’occasione in galleria hanno oggi prezzi abbordabili di 8-9mila euro.
Altri articoli dell'autore
Cento immagini e sette sezioni ricordano l’autore franco-americano che lavorò per l’agenzia Magnum, pochi mesi dopo la sua scomparsa
La rubrica di approfondimento dedicata al premio promosso dalla Fondazione Bracco in collaborazione con la Fondazione Roberto de Silva e Diana Bracco, che celebra la figura dell’imprenditrice in ambito artistico
Complice forse la Biennale 2022, il movimento di inizio Novecento è oggetto di un rinnovato interesse del mercato (a scapito di Astrattismo e Concettuale): Magritte il più amato (forse toccherà i 100 milioni), Leonor Fini con margini di crescita, e Dalí, Miró, Tanning e Sage sempre di successo
Antichi maestri, oggetti da Wunderkammer e Indiana nel menù d’autunno della casa d’aste