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Copertina dell’album «Ummagumma» (1969) dei Pink Floyd (particolare)

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Copertina dell’album «Ummagumma» (1969) dei Pink Floyd (particolare)

Il Dottor Divago | I «Pink Floyd» e il mestiere di guardare

Divagazioni musicali di Stefano Causa

Stefano Causa

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Se a uno studente appena uscito dal liceo e, di solito, disabituato a vedere, chiedessimo uno e un solo quadro da leggere al primo esame di storia dell’arte, caleremmo l’asso di «Ummagumma», quarto album degli inglesi Pink Floyd uscito alla fine degli anni ’60. Ufficio di una buona copertina è farsi notare e fin qui ci siamo; ma ve ne sono alcune che ci interrogano e spiano. Copertine da smontare e rimontare, inesauribili attivatori di attenzione. Nel novembre ’69 l’acquirente volenteroso di «Ummagumma» pose uno dei due vinili sul piatto predisponendosi all’ascolto guidato dal volto dolente e disarmato di David Gilmour che, seduto, ci chiama in causa. Suo complice, in questo esercizio scrutante, nessun altri che Roger Waters. Fuori, nei giardini di Kensington, gli altri componenti della band, Mason e Wright, non sembrano badare a noi (uno fa esercizi sull’erba). A sinistra sul muro un finto riquadro di finestra ripropone, in piccolo, il totale della copertina che, a sua volta, si ripete, via via riducendosi. Insomma: le matriosche. Immutabili rimangono il recipiente di vetro, le lettere cubitali in bianco del gruppo sul tappeto e, appoggiata al muro e non appesa, la locandina di «Gigi» (1958) che un grande pittore e illustratore toscano, Nano Campeggi, fece per il film di Vincent Minnelli.

Per presentare un’avventura sonora che è metà live e metà da studio, i Floyd recitano in una delle invenzioni figurative più sperimentali del decennio. In questo gioco di specchi messo a punto dallo studio Hipgnosis s’incontrano Magritte e lo specchio dei coniugi di Van Eyck, lo specchio delle damigelle di Velázquez al Prado e i quadri specchianti di Pistoletto; si reinventano gli specchi di «Biancaneve», mentre si anticipano quelli di «Profondo Rosso» e di Helmut Newton. Specchio delle mie brame chi è il più bello e bravo tra i Pink Floyd? Tutti e quattro naturalmente. Però a turno e cambiandosi di posto.  

Se l’arte contemporanea passa attraverso la soglia delle copertine dei dischi, una delle cose che abbiamo perduto, dal vinile, al compact al digitale, è la scomparsa di «Ummagumma», che meriterebbe di rientrare nel comparto della scena inglese del dopoguerra. Pure se alle copertine migliori compete di proporsi come lettura critica di ciò che ci attende; ne esistono di così stratificate e definitive da allontanare in penombra il contenuto, sino a surclassarlo. Tanto più nel caso di uno di quei dischi, importanti ma coriacei destinati a qualcuno paziente, attento, disposto a far riemergere, dai solchi, una possibile via di mezzo tra i Beatles e Pierre Boulez. Un ascoltatore, senza offesa, estintosi da almeno vent’anni. Quanto è inciso in questo doppio album del ’69 non scorre innocuamente come la musica caricata a salve che si produce oggi, simile al tappeto su cui il giovane e ancora sottile Gilmour (e poi, a mano a mano, gli altri tre) sta posando il piede nudo. 

Stefano Causa, 24 maggio 2024 | © Riproduzione riservata

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