Giuseppe M. Della Fina
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È stata progettata e realizzata una nuova sistemazione per il Parco Archeologico del Celio, che accoglie il Museo della Forma Urbis, aperto al pubblico di recente. In quest’area, nei decenni, era stata riunita una congerie di materiali lapidei recuperati in seguito agli sterri effettuati in diversi quartieri della città. Ora essi sono stati collocati secondo una divisione ragionata per iniziativa della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e l’impegno dell’archeologa Caterina Papi, responsabile delle collezioni epigrafiche del Celio.
L’intervento ha previsto una suddivisione per nuclei tematici, che consentono di avvicinarsi ad aspetti chiave di Roma antica. Tra i reperti valorizzati se ne trova uno alquanto singolare: un anemoscopio, ovvero uno strumento in grado d’indicare la direzione dei venti. Esso venne reso noto dall’antiquario Ludwig Pollak (1868-1943) sul «Bullettino della Commissione Archeologica Comunale» di Roma nel 1933. La sua figura e le vicende della vita, conclusasi tragicamente con la deportazione ad Auschwitz, sono state ricostruite in una mostra allestita nella capitale presso il Museo Giovanni Barracco e il Museo Ebraico nel 2019, a cura di Orietta Rossini.
L’anemoscopio fu rinvenuto casualmente nel marzo del 1932, vicino all’Arco di San Lazzaro, in via Marmorata, ma il reperto venne fatto sparire già durante la notte successiva alla scoperta. Fu rintracciato sette mesi più tardi presso un privato da Pollak, che convinse il possessore a restituirlo all’allora Governatorato di Roma. Esso venne collocato nella prima sala dell’Antiquarium del Celio, ma dopo la chiusura, a seguito di danni strutturali subiti nel 1939, confluì tra i materiali lapidei che ora sono stati riordinati. L’anemoscopio è realizzato in marmo e risulta suddiviso in 16 riquadri, ognuno caratterizzato da una testa scolpita. Sulla sommità dello strumento doveva essere fissato un perno metallico, su cui ruotava una banderuola che ne indicava la direzione. Nel nostro caso i venti indicati da iscrizioni sottostanti, che ne suggeriscono il nome, sono 12: Boreas, Favonius, Africus, Solanus per citarne alcuni. Pollak ha datato il reperto al V secolo d.C. sulla base dei caratteri delle iscrizioni e dello stile delle teste e su di esse era stato molto severo dato che, nel suo giudizio, esse rappresentano «il punto più basso di tutta la scultura romana», ma proprio per questo «sono veramente insuperabili e pure assai istruttive», dato che ci si trova «di fronte a una svolta assai importante nella storia dell’arte».
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