Francesco Tiradritti
Leggi i suoi articoliIn un articolo del 17 maggio scorso, pubblicato nell’edizione online del «Corriere della Sera», Alessandro Vinci riporta la notizia di uno studio pubblicato il giorno precedente nella rivista online «Communications Earth & Environment» del gruppo editoriale Nature-Portfolio che, secondo quanto asserito dallo stesso Vinci, avrebbe risolto il mistero che da decine di anni assilla l’umanità: in che modo siano state costruite le piramidi che bordeggiano la riva occidentale del Nilo lungo la striscia di deserto che va da Lisht a Giza.
In realtà l’articolo, a firma della professoressa Eman Ghoneim dell’Università della Carolina del Nord (Wilmington, Usa) e di un gruppo di altri studiosi, annuncia soltanto l’individuazione di un braccio del Nilo, oggi insabbiato, ma che tra l’Antico e il Medio Regno avrebbe bordeggiato le propaggini orientali dell’altopiano libico e sarebbe stato utilizzato come via di trasporto fluviale per operai e materiali da costruzione verso i siti delle piramidi («a transportation waterway for workmen and building materials to the pyramids’ sites»). L’affermazione è contenuta nell’«abstract» che precede l’articolo, probabilmente l’unica cosa che Vinci e gli «egittologi da social media», avventatisi sulla notizia, hanno letto di tutto il lungo articolo. Da qui si è arrivati a postulare che il braccio di Nilo (battezzato da Ghoneim e i suoi «Ahramat», che in arabo significa «piramidi») fosse la via d’acqua sulla quale venivano trasportati i blocchi di pietra con le quali sono state edificate le piramidi.
Chiariamo una volta per tutte un concetto. Nella maggior parte dei casi le piramidi sono state costruite con blocchi di pietra estratti nelle loro adiacenze. Le antiche cave sono visibili sul sito di Dahshur dove Snefru costruì due piramidi, ma è sufficiente osservare il terreno circostante la piramide di Chefren a Giza per rendersi conto che il monumento sorge nel bel mezzo di una cava. Non è neanche sicuro che le coperture delle piramidi fossero in pietra di Tura, la località che ancora oggi fornisce calcare di qualità tale da renderlo non molto dissimile al marmo. Soltanto i blocchi in granito utilizzati come copertura per la base della piramide di Micerino hanno sicuramente raggiunto Giza per via fluviale.
In realtà l’articolo di Ghoneim e della sua squadra non sostiene che l’Ahramat sia stato utilizzato per il trasporto delle pietre, ma soltanto per «operai e materiali da costruzione». L’espressione, ambigua, è uno dei modi utilizzati dalle «prestigiose» riviste americane per attribuire maggiore attrattiva agli «abstract» in modo da rendere uno studio, altrimenti interessante ma un po’ arido, uno scoop. Non proprio una «fake news», ma quasi.
C’è anche da dire che la tesi sostenuta dallo studio pubblicato su «Communications Earth & Environment» non rappresenta una novità. Tracce di antichi corsi d’acqua lungo le propaggini dell’altopiano libico sono state rilevate da tempo e molto si deve alle ricerche effettuate da archeologi e geologi inglesi a partire degli ultimi due decenni del secolo scorso. I loro risultati hanno condotto a postulare che il corso del Nilo abbia subito un graduale spostamento da ovest verso est e perciò quello individuato dal gruppo di ricerca diretto da Ghoneim, più che un braccio, dovrebbe corrispondere al tracciato seguito dal corso del Nilo nel periodo compreso tra l’Antico e il Medio Regno (XXVI-XVIII secoli a.C.), l’arco di tempo in cui furono costruite le piramidi. L’esistenza di due corsi d’acqua paralleli e d’identica portata nella regione appare infatti inverosimile. Se entrambi avessero avuto una larghezza compresa tra i 200 e i 700 m (come affermato nell’articolo), non ci sarebbe stato spazio sufficiente per lo sviluppo di agglomerati cittadini come Menfi o Itjtauy (rispettivamente capitali dell’Egitto nell’Antico e Medio Regno).
Se perciò lo studio di Ghoneim e della sua squadra lascia alcuni dubbi, si rivela nondimeno di notevole importanza perché amplia le conoscenze sull’idrografia del territorio compreso tra Lisht e Giza e rivela l’esistenza di insenature raggiunte dalle acque del Nilo che spiegano come mai le strutture di accesso (i templi a valle) ad alcuni complessi piramidali si trovino così distanti dalla piana alluvionale. Questo potrebbe rimettere in discussione, per esempio, la successione nella costruzione delle due piramidi di Snefru (prima metà del XXVI secolo a.C.) a Dahshur, e spiegare la scelta della valle settentrionale come ingresso alla necropoli di Saqqara giustificando così il suo conseguente sviluppo da nord verso sud. L’esistenza di un bacino d’acqua alimentato dalle acque del Nilo nella piana di Giza non rappresenta invece una novità (EA 32 5,1). La sua esistenza è nota ormai da tempo ed è testimoniata anche da fonti egizie. Di estremo rilievo è invece l’ipotesi, avanzata da Ghoneim e la sua squadra, sull’esistenza di una chiusa tramite la quale, nel corso del Medio Regno, venivano regolate le acque del Bahr Yussef, l’emissario che porta le acque del Nilo al lago Qarun.
L’articolo di «Communications Earth & Environment» pur non contenendo le fantastiche rivelazioni che Vinci o gli «egittologi da social media» gli attribuiscono e non avendo forse scoperto nulla di veramente nuovo ha comunque il merito di migliorare la nostra conoscenza del territorio egiziano antico. In ultima analisi dà la misura di quanto sia necessario ripensare la civiltà egizia proprio tenendo conto del dinamismo del fiume lungo le cui rive si è sviluppata.
Le piramidi sono enigmatiche soltanto se le si ammanta di artificioso mistero e scoprire le acque del Nilo può invece portare a interessanti conclusioni se ciò implica tenere conto della loro evoluzione nel corso dei secoli.
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