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«After Velázquez in my apartment» (1981) di Helmut Newton © @arte.edad.silicio

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«After Velázquez in my apartment» (1981) di Helmut Newton © @arte.edad.silicio

Helmut Newton raccontato da Philippe Garner

Un amico intimo del fotografo e presidente della sua fondazione ripercorre alcune vicende della sua vita in occasione della mostra allestita nella Fundación Mop

Roberta Bosco

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Tre eventi cambiarono il corso della vita di Helmut Newton, nato a Berlino nel 1920 e morto in un incidente d’auto nel 2004 a Los Angeles: la Notte dei Cristalli che nel 1938 lo obbligò a fuggire dall’Europa, il matrimonio con June Browne, un sodalizio personale e professionale che durò tutta la vita, e l’infarto che lo inchiodò a un marciapiede di New York nel 1971, dando una svolta alla sua carriera.

Provocatore, deciso a travalicare i limiti della fotografia e del decoro con immagini indimenticabili, è entrato di diritto tra i maestri della storia della fotografia, anche se non si considerò mai un artista. «Sono un fotografo di moda, un pistolero, un mercenario della fotografia», diceva. Accusato di oggettificare le donne da alcuni, applaudito per sancire il trionfo della «donna alfa» da altri, ha creato uno stile immediatamente riconoscibile, che forma parte dell’inconscio visivo collettivo. Le sue immagini, provocatrici, inquietanti, ambigue e inaspettate, sono oggi più che mai al centro del dibattito artistico e sociale.
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Il Giornale dell’Arte ne ha parlato con Philippe Garner, intimo amico dell’artista dal 1975, presidente della Helmut Newton Foundation e curatore, con Matthias Harder e Tim Jefferies, della mostra «Helmut Newton - Fact & Fiction» (fino al primo maggio 2024). La straordinaria rassegna, che ripercorre attraverso più di 100 opere la storia personale e professionale di uno dei grandi fotografi del XX secolo, si presenta nella sede della Fundación Mop, nel porto di La Coruña, il centro espositivo dedicato a fotografia, moda e design, creato da Marta Ortega Perez, presidentessa del gruppo Inditex (l’impero tessile che raggruppa marche di diffusione planetaria come Zara, Bershka o Pull&Bear).

In virtù di un accordo con la Fondazione Sozzani di Milano, tutti i proventi delle pubblicazioni e del merchandising della mostra saranno devoluti al programma «Future Stories», che finanzia residenze artistiche di giovani fotografi della Galizia a Milano.

Perché il titolo «Fact & Fiction»?
Helmut si muoveva sempre tra la necessità di cogliere la realtà e il desiderio di modificarla a suo piacimento. Fotografava le sue fantasie, per questo le sue immagini hanno sempre una dimensione misteriosa e cinematografica. Era come un regista o uno scenografo, captava un’idea dalla realtà e la trasformava in una fiction. Affinché il pubblico possa comprendere appieno il suo linguaggio, l’allestimento include anche schermi tattili per visionare le foto sulle riviste che le pubblicarono originariamente e quattro schermi giganti su cui si alternano frammenti di interviste ad amici e collaboratori e immagini personali della sua vita. [L’ultima è scioccante: sua moglie June lo immortala intubato, pochi istanti prima della fine. Dopo 54 anni insieme è il suo ultimo addio: per questo June, deceduta due anni fa, ha permesso che questa foto fosse mostrata solo una volta, a Berlino. Questa è la seconda volta che si espone, Ndr]

Qual è il rapporto in mostra tra le foto vintage e le ristampe contemporanee?
Non ci sono ristampe contemporanee, tutte quelle esposte sono state realizzate durante la vita di Helmut. Per lui era molto importante controllare la stampa, ma non modificava mai lo scatto, non manipolava l’immagine in nessun modo. Giocava con la luce secondo gli insegnamenti di Brassaï, che considerava il suo grande maestro e come lui usava sempre e solo luce naturale, anche di notte. Amava l’acqua, soprattutto delle piscine, e ne sapeva sfruttare i riflessi. Inoltre esponiamo una serie di Polaroid praticamente inedite, che sono come un quaderno di bozzetti e mostrano prospettive sconosciute di immagini iconiche.
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Crede che avrebbe ceduto al fascino della tecnologia, di Photoshop e del digitale?
Me lo sono chiesto spesso, perché Helmut è morto proprio nel momento del grande cambio. Senza dubbio era affascinato dalla tecnologia, ma era anche molto tradizionale. «No trickery» era il suo motto. Per questo filmava tutte le sue sessioni, perché dessero fede del suo modo di lavorare. Non ammetteva trucchi, l’artificio c’è e si vede. Sono immagini preparate, deliberate, a volte volutamente artificiose, pensate per sconcertare e provocare lo spettatore. Viaggiava sempre con i suoi elementi di scena, protesi, scarpe con tacchi vertiginosi e sette manichini che chiamava per nome.

L’arte, il cinema, le donne e June, sono state le sue grandi ispirazioni?
Senza dubbio, e le foto in mostra lo confermano. Gli omaggi all’arte antica e soprattutto a Velázquez sono evidenti. Si vedono nelle veneri, nella foto all’interno della foto di «Self-portrait with wife and models» (Vogue Francia, 1981) o di «After Velázquez in my apartment». Lo stesso succede con il cinema di Murnau, Lang, Truffaut e naturalmente di Hitchcock, con la celebre foto, ispirata al film del ’59 «Intrigo internazionale». Da June arrivavano molte delle idee più geniali sulla composizione dell’immagine e sull’atteggiamento della modella. Si trattava di stupire, di far sì che il lettore si fermasse sulla pagina, così in un servizio di cosmetici invece di bellezza tradizionale appariva Jerry Hall mentre si applicava una bistecca sanguinolenta sull’occhio. Helmut non voleva captare le pulsioni interne del soggetto. «Non m’interessa l’anima», diceva. Eppure aveva una relazione intensa con le sue modelle, Henrietta, Lisa Taylor, Jerry Hall o Elsa Peretti, davano continuità al suo lavoro.
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La polemica ha sempre accompagnato le sue donne, nude o vestite. Dominatrici, indipendenti e poderose, o oggetti sessuali sottomessi ai desideri dell’uomo?
Helmut era un uomo eterosessuale che amava le donne forti, imprevedibili, capaci di destabilizzare gli uomini e la società. Il corpo nudo lo affascinava, ma non lo considerava indispensabile perché le donne potessero imporsi. Lo dimostra il ritratto della dama di ferro, Margaret Thatcher, che gli aprì le porte della National Portrait Gallery di Londra, e il noto dittico «Sie Kommen (naked/dressed)» che immortala cinque modelle nude e vestite esattamente nella stessa posizione, con lo stesso sguardo e la stessa personalità, forza ed energia. Nei celebri «Big Nudes» di due metri e mezzo, le converte in veri e propri monumenti. Sono donne forti e determinate che si divertono e si godono la vita, ma mantengono sempre il controllo. Fotografò anche molti uomini e stilisti come Yves Saint Laurent con il suo compagno Pierre Bergé, Pierre Balmain e Karl Lagerfeld, ma l’unico che accettò di posare nudo fu Gianni Versace.
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Ci sono foto che attualmente preferite non esporre?
Se lo facessimo sarebbe un tradimento. Ho conosciuto molte donne fotografate da Helmut e tutte erano contente di come le ha ritratte, dell’esperienza e della loro relazione. [Charlotte Rampling, presente all’inaugurazione, affermava che Newton l’aiutò a scoprire una forza e una sicurezza che non sapeva di avere, NdR]. Helmut voleva rappresentare lo spirito dei suoi tempi, ma in molti aspetti fu un precursore. Osò invertire i ruoli tradizionali. Le sue donne hanno potere, squadrano gli uomini, li soppesano. Basta guardare «Woman examining man» della campagna pubblicitaria di Calvin Klein per Vogue Usa (1975): la modella, in pantofole e a gambe aperte, valuta, con uno sguardo malizioso e divertito, l’uomo escluso dall’inquadratura.
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Roberta Bosco, 23 novembre 2023 | © Riproduzione riservata

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