Con 25 opere, tra cui alcune vintage, in banco e nero e a colori, foto di top model, celebrità, paesaggi e polaroid realizzate tra gli anni Settanta e i Duemila, la galleria Glenda Cinquegrana Art Consulting di Milano mette in dialogo due grandi protagonisti della fotografia di moda: Helmut Newton (Berlino, 1920-Los Angeles, 2004) ed Ellen von Unwerth (Francoforte, 1954), tra i più efficaci interpreti del clima di edonismo manifestatosi a pieno a partire dagli anni Ottanta.
Visibile sino al 16 novembre, «Eroticism in Fashion Photography» è un viaggio per immagini che parlano il linguaggio dello stesso provocante voyeurismo. «È piuttosto interessante e sorprendente anche per me questo confronto, racconta l’ex modella tedesca, che impugnando la macchina fotografica ha saputo coniugare perfezionismo formale ed erotismo sensuale. Il lavoro di Newton è molto potente, a volte perfino duro. Il mio invece ha accenti più morbidi. Ma mi piace vederli accostati in questo originale progetto espositivo».
La mostra costruisce un gioco di assonanze che fa rimbalzare lo sguardo dello spettatore tra i vostri due immaginari, almeno in apparenza non così dissimili. Quali ritiene siano i punti di comunanza tra voi?
C’è una sintonia che emerge dalle stesse foto: la forza che emanano, il modo in cui ritraggono le donne, padrone e in controllo della loro sessualità. E penso che in alcune ci sia anche una buona dose di umorismo. Forse la nostra somiglianza deriva dal fatto che condividiamo le stesse origini, lo stesso humus culturale. Quando negli anni Settanta, grazie ai movimenti femministi, iniziò il grande processo di liberazione del corpo delle donne, vederne di nude in qualche rivista era assolutamente normale. Anzi, in Germania era un fatto perfino naturale tanto che proprio con quelle immagini davanti agli occhi sono cresciuta. Di Newton amo l’abilità narrativa, il carattere cinematografico del suo lavoro e l’uso sapiente del bianco e nero molto contrastato. Ma credo che, in definitiva, il mio approccio sia più giocoso.
È questa giocosità, la sua ironia, che le permette di entrare dentro la scena facendo sembrare che vi partecipi lei stessa, spesso destituendo le icone del loro statuto di magnificenza?
Sì, in effetti è così. Ho lavorato come modella per dieci anni e ricordo che trovavo molto frustrante dover stare ferma immobile, non avere libertà di movimento, assecondare chi mi chiedeva di spostare appena lo sguardo a destra, o leggermente più a sinistra. Non mi sentivo a mio agio, desideravo esprimermi e la fotografia è stata il mezzo che mi ha permesso di farlo. Sapevo fin dall’inizio che avrei voluto fissare nelle immagini qualcosa di vivo e allora mi serviva il contatto con le donne, ingaggiare con loro un dialogo, istituire una relazione. È diventato un gioco, in cui ho sempre spinto i limiti fin dove potevo, ho provocato ma con il solo obiettivo di generare uno scambio divertente. C’è sempre molto umorismo nei miei set perché è attraverso quello che riesco a far emergere il carattere, la personalità, ad accendere la scintilla dentro gli occhi delle persone, a creare una storia. E senza una storia nessuna foto è buona.
A proposito di storie, ce ne sono alcune che colgono sfumature inedite, la casualità di certi gesti, la vulnerabilità di alcuni sguardi. Foto rubate si direbbe.
In un certo senso cerchi sempre quel momento. Giochi, dai indicazioni alle modelle, ma spesso dentro di te sai che stai andando a caccia proprio di quell’istante, quello in cui la donna che hai davanti all’obiettivo della macchina non è consapevole. E magari fa un gesto ordinario, come indossare un paio di calze, e tu sai che non dovresti cedere al tuo voyeurismo e non dovresti scattare. Eppure è un momento bellissimo, perché in quel frangente esatto catturi davvero la sua anima. Ma non accade tutti i giorni.
Sembra che l’industria della moda non se la passi troppo bene ultimamente. Stretta nella morsa di un’infelice congiuntura economica non produce più idee, ha perso la sua capacità visionaria, è conservativa a più livelli, anche in termini di storytelling visuale dove la dialettica corpo/soggetto e corpo/oggetto si gioca su un terreno sempre più scivoloso. Com’è cambiato il mondo in questi ultimi vent’anni?
Innanzitutto non penso di aver mai trasformato con il mio lavoro le donne in oggetti. Ho molto rispetto per loro e quello che mi è sempre interessato è la loro personalità, il fatto che mostrino, innanzitutto a sé stesse, quello che vogliono mostrare. Ciò che mi intriga, e mi diverte, è scoprire le loro molteplici sfaccettature. Oltretutto, sono in larga parte le donne a complimentarsi con me per il mio sguardo, a dirmi di aver dato loro il potere di credere davvero in sé stesse. E le assicuro che è così bello sentirselo dire! C’è ora la tendenza nella moda, che cavalca l’onda del movimento #metoo, a privare il corpo di qualsiasi sessualizzazione, un’attenzione estrema a non metterlo al servizio del desiderio erotico. Ma non sono d’accordo. Quando una donna esibisce la sua sessualità in maniera disinvolta, questo la rende potente, non serve farla scendere dai tacchi e farle indossare un paio di «combat shoes» per farla sembrare forte. Ma è una tendenza del momento e come tale passerà, la moda cambia, cambia ogni stagione. Del resto anche la fotografia è cambiata, non è più la stessa da quando tutti si improvvisano fotografi e tutti copiano il lavoro di tutti. Se dovessi fare un confronto con gli inizi, forse direi che è proprio per questo che una fotografia oggi non ha più così tanto valore. Quella segnata da riviste come «Vogue» e interpreti come Naomi Campbell, Claudia Schiffer o Christy Turlington è stata un’epoca emozionante ed elettrizzante, ma anche se quel periodo si è concluso amo ancora la fotografia perché mi permette di andare alla scoperta di persone sempre nuove.
Concludendo, che cosa pensa che ci racconti il grande puzzle del femminile che lei ha composto in tutti questi anni di lavoro?
La libertà, anche quella di credere in sé stessi senza permettere a nessuno, tanto meno alle sovrastrutture sociali, di determinare l’orientamento delle nostre azioni.