Matteo Mottin
Leggi i suoi articoliIn questa intervista Guglielmo Castelli (Torino, 1987) racconta del suo particolare approccio alla pittura e dà alcune anticipazioni sulla sua prossima personale «Improving Songs for Anxious Children», a cura di Milovan Farronato e realizzata in collaborazione con le sue due gallerie, Mendes Wood DM (San Paolo, Bruxelles, Parigi, New York) e Rodeo (Londra, Il Pireo). La mostra, che segue la sua prossima personale romana a Villa Medici-Accademia di Francia del 29 febbraio, inaugurerà lunedì 15 aprile negli spazi di Palazzetto Tito-Fondazione Bevilacqua La Masa a Venezia, contestualmente all’apertura della 60ma Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia.
Molte delle tue mostre partono da un titolo. Vorrei iniziare chiedendoti da dove arriva quello del tuo nuovo progetto per Venezia.
Lo scorso marzo, mentre ero a New York per la mia personale da Mendes Wood DM, ho trovato alla Public Library un libro di favole e filastrocche dal titolo Improving songs for anxious children, traducibile come Canzoni di perfezionamento per bambini ansiosi. L’ho trovato meraviglioso e ho pensato di usarlo per un progetto. Quando mi hanno invitato a pensare alla mostra presso la Fondazione Bevilacqua La Masa a Palazzetto Tito, con la curatela di Milovan Farronato, fin da subito ho fatto presente che sarei partito da questo.
Potresti dirmi di più su questo tuo rapporto con la parola scritta, e nello specifico su come ha influito nel lavoro per «Improving songs for anxious children»?
Fa parte di un procedimento lavorativo che ho affinato negli anni. Viene dall’esperienza, ma ha origine nei miei studi teatrali, da scenografo. Il fatto di partire dalla parola, dal valore della parola, in un periodo in cui le parole determinano dei pesi, dei limiti, delle misure, e anche dei confini geografici, penso che sia importante, anche perché in qualche modo tutte le immagini subiscono un’alfabetizzazione successiva, creano una sismografia sia interiore sia narrativa nelle persone con cui le condividi. Essendo un pittore, ho sempre trovato molto interessante questa vicinanza tra la parola e l’immagine, ed è un elemento riconoscibile nella mia pittura. Tornando al libro, si tratta di una collezione di filastrocche illustrate per una correzione morale dispensata ai bambini a partire da alcuni loro comportamenti apparentemente non consoni. Bambini che saltano e non avrebbero dovuto saltare, bambini che stanno facendo qualcosa che non avrebbero dovuto fare. Mi interessava questo concetto di aspettativa che parte già durante l’infanzia, e l’idea che una cosa possa iniziare in un modo per poi diventare tutt’altro, o in cui magari si fa una cosa ma si viene giudicati per un’altra. C’è qualcosa di affine al modo in cui oggi molte volte il giudizio viene mediato dalle immagini, come nei social media. L’argomento del libro ha anche a che fare con la difficoltà che uno incontra nel voler cambiare rotta, e questa è una cosa che mi appartiene, fa parte della mia storia, dato che per me la pittura è stata un po’ un inciampo.
In che senso «un inciampo»?
Perché ho una formazione da scenografo. Negli anni ’50, lo scenografo veniva definito, soprattutto negli ambienti cinematografici e teatrali romani, il «trovarobe», perché accatastava oggetti per creare la scena. Io con la pittura faccio la stessa cosa. Accatasto e raccolgo elementi per comporre una scena. Lo spazio pittorico per me è uno spazio scenico. Dipingo sempre su tele già montate a telaio, non riesco a dipingere su tele libere. Nel momento in cui ho una tela con già una sua struttura, la percepisco come un mio spazio di competenza. È un limite, ma un limite per me carico di possibilità, con enormi possibilità. In questo, la pittura è il mezzo che mi permette di raccontare delle cose. Sarei stato uno scenografo pessimo, perché per me la scenografia non è tanto un luogo di rappresentazione quanto un luogo di possibilità.
In che modo questa concezione dello spazio pittorico influisce sulla scelta, la composizione e la natura dei soggetti?
Pur definendomi pittore figurativo, nella mia pratica arrivo alla figurazione tramite un’astrazione. Non ho mai studiato pittura. Sono un anxious child, e il fare e rifare, e i vari tentativi, hanno portato a una definizione del mio linguaggio. Nella mia pittura, e in particolar modo nella mostra per Venezia, la rappresentazione del corpo è messa sullo stesso livello della rappresentazione del paesaggio, o dello strato di fondo. Il corpo è una mappatura di pezzi decomposti che emerge e acquisisce fisicità tramite un’azione e una narrazione, e la narrazione avviene sia in ambienti interni sia in esterni, ed entrambi presentano sempre un’atmosfera claustrofobica perché mostrano un grado di finzione, di precarietà, come se la scena dovesse venire da lì a poco cambiata, disallestita. Questo continuo cambiamento si ritrova anche nel mio modo di lavorare, nell’iniziare magari da un dettaglio per poi passare alla rimozione pittorica, alla diluizione e alla creazione di varie diverse temperature nella stessa pittura, e in questo mi sono posto il problema di come fare un ritratto a un ipotetico bambino ansioso, declinato in tele di piccole, grandi e medie dimensioni, in disegni e in una serie di maquette a cui al momento sto lavorando. Le rappresentazioni nei singoli lavori formano una coralità totale, e mi piace vederli come una classe di cui non valuto i risultati individuali ma l’andamento complessivo.
Oltre a questa coralità, ci sono altri elementi che accomunano le opere che vedremo a Venezia?
È una mostra dalle temperature terrose, in cui le figure presentano un atteggiamento di abbandono all’interno della scena, una tensione da tragedia imminente, in cui ogni soggetto è colto nell’attimo prima del calcolo del grado dello tsunami che sta per investirlo. Abbiamo rappresentazioni lascive sottoposte a regole di etichetta, corpi in bilico che tengono elementi in tensione, composizioni simmetriche sull’esercizio e l’assoggettamento al potere. Elementi che tagliano, aprono e dividono come coltelli, ed elementi che ordinano, sciolgono e puliscono come spazzole e pettini. Il doppio è un tema molto presente in quasi tutti i lavori. E anche una compresenza di tempi e azioni diverse nel medesimo spazio.
Potresti darci un’anticipazione, sotto forma di tua chiave di lettura personale, di una delle opere che presenterai?
Ho realizzato dei lavori di piccolo formato, degli oli su tavola. Questo formato mi permette di innescare un gioco con l’osservatore, instaurare un rapporto di vicinanza tramite cui concentrarsi su alcuni particolari della pittura. Tra questi lavori, «Honi soit qui mal y pense» (2024) potrebbe essere messo in apertura di mostra. Il titolo può essere tradotto come «Vergogna a chiunque ne pensi male». È un piccolo notturno con una scatola di fiammiferi, da cui uno dei fiammiferi scappa e si perde nella notte. Non si sa se poi tornerà indietro per incendiare gli altri. Mi ricorda un’intervista a Carol Rama in cui le chiesero che cos’era per lei la libertà, e lei rispose che è un concetto molto relativo, perché per un piromane la libertà consiste nel dar fuoco alle cose. Mi piaceva l’idea di aprire la mostra con un’esplicita maledizione, un lavoro in cui aleggia un ambiguo senso di tragedia.
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