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Particolare di Giorgio Griffa nel 2022 mentre sfoglia le sue tele

© Sebastiano Pellion di Persano / Cortesia dell’Archivio Giorgio Griffa

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Particolare di Giorgio Griffa nel 2022 mentre sfoglia le sue tele

© Sebastiano Pellion di Persano / Cortesia dell’Archivio Giorgio Griffa

Griffa, il pittore che fa coesistere il Quattrocento, Matisse e lo Zen

Da oltre cinquant’anni l’artista torinese dialoga severamente con la storia della pittura per rivelarne l’alfabeto nascosto. Scrive il «New York Times»: «Merita un posto nella storia mondiale dell’Astrattismo»

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Franco Fanelli

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«Non ho mai “scelto” di abbandonare il figurativo per l’astratto. Semplicemente, a un certo punto la figura si sovrapponeva alla pittura. E io ho lasciato soltanto la pittura». Così Giorgio Griffa ricorda il punto di svolta che, dalla fine degli anni Sessanta, ha dato vita a una delle più radicali e poetiche vicende artistiche non solo italiane. Allievo di Filippo Scroppo, uno dei più noti esponenti del Mac-Movimento Arte Concreta, presenta la sua prima personale alla Galleria Martano, nella sua città, Torino, dov’è nato nel 1936. Nelle opere esposte è già presente quella che resterà la costante di tutta la sua ricerca.

Recensendo la mostra, Paolo Fossati scrive che i lavori allestiti «corrono per lo spettatore che le osservi per la prima volta un certo rischio: quello di essere ridotti all’osso, di mostrare l’operazione poetica quasi al suo grado di dimostrazione didattica. Ora, questo peccato di schematizzazione di estrema riduzione è in realtà la loro forza esemplare». E la forza è «nell’insistere della messa in rilievo di una logica a sé stante del dipingere e sul rigore con cui essa è regolata».

Griffa si presenta come pittore nell’anno successivo alla pubblicazione, sulla rivista «Flash Art», del «manifesto» dell’Arte povera firmato da Germano Celant. Porta cioè l’attenzione sugli elementi primari del dipingere (segno, pigmento, tela) nella città in cui si era svolta la breve incubazione del Poverismo. Quasi un paradosso, se si pensa all’Arte povera come a un movimento antipittorico, mentre, da Mario Merz a Jannis Kounellis a Pier Paolo Calzolari, la pratica e le dichiarazioni d’amore nei confronti della pittura sarebbero state una delle intermittenti costanti del movimento. In realtà il gruppo, nel quale in un primo tempo sembrava dovesse essere inglobato lo stesso Griffa, nacque all’insegna dell’eterogeneità delle ricerche condotte dai suoi componenti.

Giorgio Di Genova ha definito «la precisa volontà di esibire il processo iniziale del dipingere» manifestata dalle opere di Griffa il corrispettivo pittorico delle esperienze di Paolini sull’«abc del disegno» nel 1960. Fu l’amico artista Aldo Mondino a presentargli lo stesso Paolini. Ma Griffa sentiva più vicini, tra i poveristi, Anselmo e Penone; il che non deve sorprendere: il tema della materia del dipingere è sempre stato al centro delle sue attenzioni. È la ragione, tra l’altro, per cui mantenne sempre una certa distanza rispetto alla Pittura analitica (anche se accettò l’inclusione in alcune mostre dedicate a questa corrente), in quanto «l’aspetto concettuale è stato sovrapposto alle qualità stesse della pittura».

Griffa intento a disegnare con la china nel 2016 a Torino. © Giulio Caresio / Cortesia Archivio Giorgio Griffa

A Torino, Gian Enzo Sperone, gallerista quantomai sensibile alle generazioni emergenti, non si lascia sfuggire quel giovane che, negli anni in cui trionfa l’«elogio dell’icona» pronunciato dalla Pop art, pratica una pittura di segni puri, anzi «Segni primari», come nel 1967 intitola il primo degli undici cicli di opere che scandiranno la sua produzione. Tutto è riportato all’essenzialità: anche le tele non recano la caratteristica imprimitura, né sono montate su telai; ovviamente non hanno cornice e vengono esposte con piccoli chiodi che le reggono lungo il bordo superiore. Il colore è rigorosamente ad acqua. Come nella poesia ermetica, ha significanza anche lo spazio vuoto, nel suo caso non dipinto. Nulla si chiude in sé e le opere stesse terminano con una sorta di sospensione; gli stessi cicli hanno una data d’inizio ma non una di fine, perché tutto si compenetra, così come il pigmento liquido si distende senza forzature sulla trama del supporto che lo assorbe. Il non finito esalta l’atto del farsi, raramente del «compiersi».

Il pittore stesso è inglobato dalla pittura: «Alter ego», un ciclo di opere iniziato nel 1979, con dipinti dedicati ad artisti del passato e a suoi contemporanei, da Matisse a Brice Marden, da Mario Merz a Beuys, da Piero della Francesca ad Agnes Martin, è scandito volutamente da «segni anonimi» che potrebbero appartenere a mani altrui. La spoliazione, dunque, prosegue con la messa in discussione del mito dell’autografia. Sperone conduce Griffa nell’élite del mondo galleristico internazionale: nel 1970 si svolge la sua personale da Ileana Sonnabend a Parigi; nel 1972 è da Annemarie Verna a Zurigo; poi sarà la volta di Lia Rumma a Napoli, Templon a Milano e a Parigi.

Nel 1978 allestisce la sua prima monografica museale alla Städtische Kunsthalle di Düsseldorf. In Italia, Lorenzelli di Milano e Martano di Torino sono tra i suoi più continui sostenitori, ma un giovane Massimo Minini, quando la sua galleria a Brescia si chiamava ancora Banco, gli chiede nel 1976 una personale. Sul versante delle collettive, Achille Bonito Oliva lo vuole, nel 1973, per la storica rassegna «Contemporanea», che nei parcheggi sotterranei di Villa Borghese a Roma riunisce pressoché tutti gli esponenti di punta dell’arte internazionale; nello stesso anno è convocato in un’altra mostra destinata a passare alla storia, «Prospect» a Düsseldorf: è l’ultima di una tetralogia iniziata nel 1968 e organizzata dal critico Hans Strelow e dal leggendario gallerista Konrad Fisher. In quattro edizioni, vi sfilano Arte povera, Minimalismo, Land art, Concettualismo sino, appunto, agli albori di quello che verrà impropriamente ricordato come «ritorno alla pittura».

L’artista presso la Galleria Sperone di Torino nel 1969. © Paolo Mussat Sartor / Cortesia Archivio Giorgio Griffa

Echi matissiani, alfabeti continuamente reinventati e «riscritti», arabeschi, intridono le sue tele di misteriosi ritmi musicali: sono queste caratteristiche che lo distinguono da certo algido Minimalismo. Il mondo dell’arte è spesso distratto, ma Griffa sa ogni volta sorprenderlo: la sua sala alla Biennale di Venezia del 1980 è un trionfo, una festa della pittura e del movimento e della fascinazione di superfici, colori e scritture con «Dioniso», un’installazione di nove metri per tre, composta da 21 tele trasparenti il cui sovrapporsi offre la possibilità di mutare il dinamismo segnico che le scandisce. Il viaggio di questo artista che dipinge, come Pollock e gli orientali, su tele stese a terra, prosegue dialogando ora con la scienza ora con la filosofia ora con l’infinito, quello indicato nel «Canone Aureo» che, alludendo alla proporzione divina, dà il titolo a un ciclo avviato nei primi anni Duemila.

Numeri, lettere, parole incomprensibili (giacché la parola diventa immagine, come nella celebre «Preghiera della pietra» del poeta Vladimír Holan) appaiono nei lavori più recenti. Griffa (ora tra gli artisti della Galleria Massimo De Carlo di Milano e Londra) continua a stupire: nel 2012 per la sua mostra «Fragments 1968-2012» alla Casey Kaplan Gallery di New York, Roberta Smith scrive sul «New York Times»: «La sua arte merita un posto nella storia mondiale dell’Astrattismo».

L’anno successivo la Tate di Londra acquisisce la grande opera «Segni orizzontali». Andrea Bellini, direttore del Centre d’art contemporain Genève, gli dedica nel 2015 una vasta retrospettiva, con opere dal 1968 al 2014. Nel 2017 Griffa torna alla Biennale di Venezia, in un video che ne documenta l’azione pittorica, nella sezione «Pratiche d’artista». Christine Macel, curatrice di quella Biennale, lo è anche dell’antologica allestita nel 2022 al Centre Pompidou e consistente in 18 opere datate dal 1969 al 2022, donate al museo parigino. A 87 anni, nel suo studio, Giorgio Griffa continua, nella serie «Dilemma», a far «convivere gli opposti, Piero della Francesca e la pittura Zen»; e a dialogare con quella che definisce «l’intelligenza della materia»: «Esistono il mondo animato e il mondo inanimato, ha dichiarato a “Il Giornale dell’Arte”. L’artista raccoglie un elemento del mondo inanimato e lo sposta nel mondo animato dandogli voce. La pittura, in tal senso, conserva ancora un’immensa capacità di agire nel mondo».

Franco Fanelli, 17 aprile 2024 | © Riproduzione riservata

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