Gottfried Helnwein ©Flavia Foradini

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Gottfried Helnwein ©Flavia Foradini

Gottfried Helnwein festeggia all’Albertina

L’imminente mostra nel museo viennese, in occasione del suo 75mo compleanno, fa da sfondo ad una chiacchierata con l’artista austriaco tra i più conosciuti e apprezzati a livello internazionale

Viennese classe 1948, Gottfried Helnwein è uno degli artisti austriaci di punta a livello internazionale. Da un quarto di secolo vive tra Irlanda e Stati Uniti, ma di recente ha preso casa anche in Austria, dove sta lavorando fra l’altro alla creazione di una fondazione «per lasciare ai posteri il mio lavoro in modo ordinato». In occasione del suo 75mo compleanno il Museo Albertina, a cui nel 2016 Helnwein ha donato sette opere e ne ha affidate diverse altre in comodato, gli dedica un’ampia retrospettiva dal 25 ottobre al 18 febbraio ’24. «Per qualche motivo l’Albertina è diventata la mia casa artistica, dove ho fatto molte mostre in varie fasi del mio lavoro, e questo sguardo agli ultimi 20 anni mi pare una bella conclusione», ci dice nella sua casa atelier in centro a Vienna, dove ci accoglie con affabilità, vestito in nero su nero e con l’immancabile bandana nera e bianca, gli occhiali scuri e grossi anelli d’argento di memoria rock.
Lei è cresciuto nella Vienna degli anni immediatamente successivi al nazismo, che è un tema centrale della sua opera. Che ricordo ne ha?
Il nazismo, il tema della violenza soprattutto maschile su donne e bambini, la vulnerabilità, la crudeltà del mondo, sono tutti elementi che ricorrono continuamente nel mio lavoro. Non l’ho pianificato, è semplicemente ciò che mi ha portato all’arte, soprattutto attraverso il confronto con l’Olocausto, quella catastrofe causata dalle generazioni dei miei genitori e dei miei nonni. Che poi è stato anche il motivo per cui in America e in tutta Europa nel ’68 la mia generazione ha messo in atto quella grande rivolta giovanile. Era una ribellione contro l’eredità dei nostri genitori, era una necessità storica e ha avuto un impatto in parte culturale, in parte politico. Qui dopo la guerra nessuno parlava mai dell’Olocausto, nemmeno a scuola, era come se non fosse mai accaduto. La generazione dei miei genitori ha messo in atto una negazione totale, per cancellare il passato dichiarandolo semplicemente inesistente, ma naturalmente era presente. Mi sono chiesto spesso come sia stato possibile che Austria e Germania, due Paesi con una forte connotazione culturale, siano stati trasformati così velocemente da un paio di idioti totali in una massa di folli, che poi in uniforme e a passo cadenzato, a milioni hanno invaso Paesi stranieri e devastato tutto. 
Che effetti ha avuto quel tentativo di rimozione collettiva sulla sua formazione di artista?
Un’esperienza capitale per me è stata quando all’inizio degli anni Sessanta si svolse il processo contro il nazista Franz Murer, il «macellaio di Vilnius». Fu uno spettacolo orribile: terminò con la sua completa assoluzione. Per me in quel momento si è infranto qualcosa, mi sono guardato intorno e ho pensato: sono finito nel posto sbagliato. Ho capito che non volevo avere nulla a che fare con quella società, ne ho preso le distanze e credo che tutta la mia generazione abbia provato lo stesso sentimento. A Vienna gli artisti che conoscevo erano tutti aggressivi, si aveva la sensazione che l’unico modo per creare arte autentica fosse quello di buttare tutto all’aria: era impossibile immaginare altro. Non mi sono mai liberato di quel tema. Come artista hai dei temi dentro di te con cui devi confrontarti, che ti si impongono. Kandinskij l’ha chiamata necessità interiore.
Fino al 1973 lei ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Vienna. Il suo professore di riferimento era Rudolf  Hausner, uno dei massimi esponenti del Realismo fantastico. Ne è stato influenzato?
Assolutamente no. Per me l’accademia era solo un posto dove avevo un atelier per dipingere quando volevo, in piena libertà.
Dunque è un autodidatta?
Sì (ridacchia): dentro le mura di un’accademia, però completamente autodidatta. Non ho avuto modelli di riferimento. Facevo solo le mie cose, non volevo nemmeno esporle, non volevo venderle. Poi però ho notato che le persone erano molto mosse emotivamente dai miei quadri, e questo è stato un altro momento chiave, perché ho iniziato a percepire il potere che può avere un’immagine, il fatto che con un’immagine si possano raggiungere aree completamente diverse nel subconscio o nella coscienza delle persone. E questo m’interessava molto: per me l’arte è dialogo. Duchamp diceva che l’arte è al 50% in capo all’artista, e al 50% in capo al pubblico: è esattamente quello che ho sempre pensato. In un’opera ognuno vede qualcosa di diverso perché ognuno ha un’esperienza di fondo completamente diversa, ognuno è una persona diversa.
Quando crea un quadro cerca comunque di suscitare determinate emozioni o reazioni?
No mai, quando dipingo c’è la mia passione, la mia necessità, c’è quello che io provo. Però nel momento in cui il quadro diventa pubblico, non lo determino più: la sua narrazione può essere completata o ulteriormente ampliata dallo spettatore, perché un dipinto è solo un attimo congelato di una narrazione, il prima e il dopo non sono nel quadro, sta allo spettatore completarlo.
I suoi quadri hanno una forte componente estetica e perlopiù tematizzano il dolore con grande intensità. È affascinato dal dolore o il suo è un riferimento o una continuazione della tradizione cristiana dei martiri? 
Sono certo che sia un radicamento nella tradizione culturale europea e austriaca, il che è ovvio: sono cresciuto in un Paese cattolico, la prima e unica arte che ho visto da bambino era nelle chiese, erano i martiri. Sono cresciuto vedendo solo persone sanguinanti e cadaveri e gente flagellata e lapidata e arrostita. Si aveva sempre l’impressione che fosse tutto un’orgia di sofferenza e che nella Chiesa cattolica il dolore venisse anche glorificato: i tormenti, il martirio, la morte, erano elevati a qualcosa di molto speciale, una trascendenza in qualcos’altro.
Non è preoccupato che le scene così sottilmente crude delle sue opere possano far gioire osservatori sadici o perversi? 
Ho decenni di esperienza su ciò che le mie opere suscitano nella gente e non ho mai sperimentato nulla di tutto ciò, mai. E nemmeno strumentalizzazioni da parte di radicali di destra o neonazi. Su internet ho trovato un gruppo di suprematisti bianchi che stavano chattando sulla mia opera «Epifania» e sulla presenza di ufficiali nazisti nel dipinto. Alla fine hanno concluso che dovevo essere un ebreo infangatore della memoria dell’esercito.
Un elemento simbolico nel suo lavoro, ma anche in numerosi altri artisti viennesi della sua generazione, e in parte anche di generazioni successive, sono le bende. Che cosa significa una benda per lei?
Ha diversi significati: Da un lato rimanda a una ferita, una lesione, ma anche al blocco degli organi di senso: se ti bendi la testa, la tua percezione è impedita. Anche questo evoca quella fase depressiva dopo la seconda guerra mondiale, di cui dicevo poc’anzi, che ha comunque radici ancora più profonde: Vienna a un certo punto del passato, attorno al 1900, si considerava il centro del mondo, ma poi c’è stata la prima guerra mondiale e poi il tracollo dell’impero, e poi la grande depressione economica degli anni Venti e poi la guerra civile, e poi il nazismo e la seconda guerra mondiale. Una lunga catena di fallimenti totali. E tutto questo gli artisti l’hanno semplicemente percepito. Nessun artista agisce nel vuoto pneumatico, bensì riflette sempre il tempo e la società in cui vive. Dagli scrittori, dai pittori, e da quest’arte nata qui, con le bende, le ferite, l’autolesionismo, si può dedurre molto bene quale fosse la società in cui vivevamo.
Un altro elemento che ricorre nelle sue opere sono i personaggi dei fumetti.
Per me la maggior parte dei quadri è qualcosa di simile a un palcoscenico, dove posso collocare diversi attori, inventare una storia, avendo il controllo dello spazio e del tempo, e dove posso quindi mettere insieme persone reali e personalità storiche, e anche personaggi di fantasia e personaggi dei fumetti, come contrappunto. 
Ma perché fare incontrare Hitler e Topolino o Paperino? 
Questo è un fatto autobiografico. Quando avevo 5-6 anni ho ricevuto le mie prime riviste tedesche di Topolino. Negli anni Cinquanta era tutto così deprimente, non c’era niente, non c’erano libri per bambini, non c’erano film, mi sembrava tutto un incubo, ma aprire il mio primo librino di Topolino è stata un’esperienza religiosa (ride) che ha cambiato tutto, come se si fosse aperta la porta del paradiso, ed è stata la mia salvezza. 
Al momento c’è molta considerazione per l’Intelligenza Artificiale, anche in collegamento con l’arte. Pensa che IA e arte siano coniugabili? E l’IA potrà sostituire gli artisti?
No, è un’aberrazione, pericolosa e sbagliata, e non sostituirà mai gli esseri umani. L’IA attinge sempre a cose che gli umani hanno già fatto. Non c’è atto creativo. Per quel che mi riguarda, io non voglio un’auto intelligente né cose smart, voglio fare tutto da solo.
Lei vive tra l’Irlanda e gli Stati Uniti, ma ora ha comprato un castello di campagna non lontano da Vienna, che diverrà anche la sede della sua nuova fondazione. Ha nostalgia delle radici?
Dalla caduta della cortina di ferro Vienna è diventata via via una delle migliori città che conosco, è incredibile quello che sono riusciti a fare. Voglio passarci più tempo.
 

Gottfried Helnwein ©Flavia Foradini

«Pink mouse 2» Cortesia del Museo Albertina e dell’artista

Flavia Foradini, 23 ottobre 2023 | © Riproduzione riservata

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