Stefano Miliani
Leggi i suoi articoli«Vidi la morte negli occhi. Però ero vivo. Allora ebbi un pensiero: il mio compito era servire la Basilica di San Francesco». Erano i giorni del terremoto del settembre 1997 nell’Italia centrale. Li ricorda nitidamente Sergio Fusetti, nato a Galatina (Le) il primo gennaio 1952, in questa intervista per i suoi 50 anni di attività nel Sacro convento di Assisi (Pg), dal 1974, dove è capo restauratore e conservatore dal 1994. Prima sotto la guida di Carlo Giantomassi (Ancona, 1942), poi come cofondatore e guida dell’impresa di restauro Tecnireco, Fusetti ha lavorato su molti maestri. Oltre a Cimabue, Giotto, Pietro Lorenzetti, Simone Martini ad Assisi, tra tanti è intervenuto su Pietro Cavallini, Filippo Lippi, Pinturicchio, su alcune scene di Giotto agli Scrovegni a Padova, su Piero della Francesca, Perugino, Gentile da Fabriano, Beato Angelico, fino al ’900 di Giulio Turcato, Alberto Burri e altri.
Fusetti, com’è diventato restauratore?
Per pura coincidenza. Mi trovavo all’interno della Basilica di Santa Caterina d’Alessandria a Galatina, dove vivevo e avevo appena finito l’istituto d’arte. Lì arrivò un gruppo di restauratori al seguito di Giantomassi che cercavano un ragazzo del posto, come garzone, soprattutto per tirare con la carrucola i secchi dell’acqua sul cantiere dei restauratori. Il parroco padre Ignazio Monteleone, conoscendo la mia situazione, sia familiare sia economica, mi esortò ad accettare.
Che cosa restauravano?
Gli affreschi con Storie del Vecchio, Nuovo Testamento e dell’Apocalisse di scuola giottesca, nella chiesa gotica nonché la mia parrocchia. Ammiravo il lavoro dei restauratori su quelle pitture, così Giantomassi prima mi insegnò a fare i primi consolidamenti e le prime puliture; dopo un periodo di prova, mi mise all’opera. Mi piaceva moltissimo. Finito il cantiere, mi propose di andare con lui a Roma. Carlo fu così gentile da ospitarmi a casa sua perché non potevo permettermi una pensioncina. Era il 1970. Presi il treno Lecce-Roma. Avevo un po’ paura, ma a Termini trovai Carlo e la sua compagna Donatella Zari, che poi sono stati i miei maestri. Dopo uno stage all’Istituto centrale del restauro cominciai a lavorare con loro. Un giorno la Soprintendenza dell’Umbria li chiamò per dei restauri nella Basilica di San Francesco ad Assisi: l’avevo vista sui libri di storia dell’arte e quando arrivammo, nel giugno del 1974, mi si presentò davanti, bellissima. Vedere gli affreschi fu stupefacente.
Su che cosa dovevate intervenire?
Nel primo anno il ciclo pittorico del Maestro di San Francesco nella Chiesa Inferiore. Dopo ci fermammo in Umbria perché la Soprintendenza ci affidò un altro lavoro bellissimo: la Cappella Baglioni a Santa Maria Maggiore a Spello con gli affreschi del Pinturicchio, poi il Raffaello della Cappella di San Severo a Perugia, in seguito altri lavori finché non trovai casa ad Assisi. Mi piaceva la città, la gente e soprattutto con la Basilica è scattato un amore a prima vista. Nel 1977 nasceva la cooperativa Tecnireco, che sta per Tecnici Restauro e Conservazione. Eravamo un gruppo ormai affermato: Giantomassi fu il primo presidente, oggi il capo sono io insieme a un altro socio fondatore, Paolo Virilli. La Tecnireco ha eseguito i lavori all’interno della Basilica negli ultimi cinquant’anni. Si unirono i sentimenti, trovai una compagna, andavo in giro per l’Italia però mi prendevo sempre un po’ cura della Basilica.
Qual è il suo ruolo qui ad Assisi?
Sono capo restauratore e conservatore della Basilica e di tutto il complesso monumentale, nominato dal Custode della Custodia generale del Sacro convento.
In questo mezzo secolo ha dovuto sottostare alle Soprintendenze o ha prevalso la collaborazione?
La collaborazione è stata totale, perché i lavori fino al 2000 venivano affidati esclusivamente dalla Soprintendenza e si lavorava con il criterio del cottimo fiduciario. Con il passaggio della legge Merloni nel 2000, i restauratori sono subentrati con i lavori pubblici, con le varie burocrazie. Soprattutto nella Basilica ogni cosa va concordata con la Soprintendenza e con la Fondazione San Francesco perché è addetta alla conservazione e al restauro del complesso monumentale; i padri custodi sono i massimi responsabili del monumento oltre che del santuario. Le Soprintendenze allora funzionavano molto, molto, molto bene, affidavano i lavori, facevano la direzione, erano presentissime. Oggi non posso dire la stessa cosa.
Le Soprintendenze sono meno presenti forse perché non hanno personale?
Sì, la causa principale è la mancanza di personale e di conseguenza non riescono a fare l’alta sorveglianza e la direzione lavori come vorrebbero. Dunque andrebbero potenziate, così ne trarrebbe molto vantaggio il nostro patrimonio culturale.
Il 26 settembre 1997 un forte terremoto colpì pesantemente San Francesco e alcune persone morirono nella Basilica Superiore per una scossa di assestamento durante un controllo.
È stata un’esperienza tragica che porto dentro. Avevamo appena ultimato il sopralluogo, quando alle 11.42 una forte scossa di magnitudo 5.8, fece crollare due volte della Basilica Superiore, dove morirono due tecnici della Soprintendenza, miei amici di vecchia data, e due frati. Io ero il quinto coinvolto nel crollo; ero sull’altare maggiore quando vidi la volta aprirsi. Scivolai, caddi a terra e mi piovvero addosso le macerie. Pensavo fosse finita, il mio pensiero andò a mia figlia Chiara che allora non aveva compiuto nemmeno tre anni, vedevo buio, credevo fossero crollate tutte le volte, ero molto spaventato, ma non ero stato colpito in modo diretto e facevo solo fatica a respirare. Spinsi via le macerie con le mani, mi portarono in ospedale e mi risvegliai intubato, molto ammaccato, con costole rotte, però vivo. Vidi la morte negli occhi. Allora non feci un vero voto, ma ebbi un pensiero: il mio compito era servire la Basilica. Da quel giorno non l’ho lasciata un giorno.
Com’è stato il processo di ricostruzione delle vele crollate della Basilica Superiore? Era presente l’Istituto centrale del restauro con Giuseppe Basile.
Fu un esempio di ricostruzione straordinario; innanzitutto furono divisi gli interventi. La Soprintendenza si occupava dei lavori architettonici e l’Istituto centrale del restauro dei cicli pittorici, con Basile a capo, direttore dei lavori. Comunque tutte le decisioni venivano prese dalla Commissione per la ricostruzione della Basilica, presieduta da Antonio Paolucci. Fu una fortuna averlo: conosceva bene la materia, ci teneva tanto. La Commissione sfrondò tutte le burocrazie, altrimenti non ce l’avremmo fatta. La sera si prendevano le decisioni che la mattina seguente diventavano operative. Furono chiamate, dietro mio suggerimento, tutte le ditte che avevano lavorato nelle campagne di restauro dal 1974 al 1985 e appena furono interpellate non esitarono a venire ad Assisi, lasciando tutti i loro impegni. Io, come capo restauratore, ebbi l’incarico, da parte della commissione, di coordinare i gruppi di lavoro. Bellissima esperienza! Per me era un onore e un piacere lavorare con loro, ormai grandi professionisti e tutti legati alla Basilica grazie ai cantieri scuola dell’Icr. Il custode di allora, padre Giulio Berrettoni, voleva riaprire la chiesa per il Giubileo del 2000. Ci riuscimmo, lavorando intensamente, con circa trecento persone tra restauratori, muratori, fabbri e molti operatori a vario titolo. Era rinata la «fabbrica».
C’erano scatole piene di frammenti delle pitture dalle vele crollate.
I media parlavano dei frammenti, però la nostra preoccupazione era la Basilica. Avevamo 1.200 metri lineari di crepe sulle volte passanti, temevamo che le scosse di assestamento provocassero ulteriori crolli, per cui ci concentrammo lì. Vennero montati i ponteggi e puntellate le volte per dare un po’ di respiro. A Basile, che non è più tra noi purtroppo, venne in mente di recuperare i frammenti. Nacque un gruppo operativo. Dapprima i volontari dovevano dividere le parti colorate dai calcinacci, poi le studentesse e gli studenti dell’Università della Tuscia, che avevano un’esperienza di ricerca archeologica, guidati dalla professoressa Maria Andaloro, incominciarono la selezione colore per colore nelle casse, insieme a Paola Passalacqua della Soprintendenza umbra e alla restauratrice Paola Cinti. Nella selezione dei frammenti, assemblandoli, uscì fuori il volto di San Rufino, il patrono di Assisi. Questo incoraggiò tutti. Basile fece separare i frammenti della vela di Cimabue da quelli di Giotto. Devo dire la verità: con tutte le problematiche conservative che la chiesa aveva, ero perplesso. Invece avevano ragione loro. Finito il restauro della Basilica Superiore, Basile ci affidò il restauro di quei frammenti. Fu fondamentale la campagna fotografica della Panini, eseguita prima del crollo, le cui foto furono stampate in scala 1:1 e senza le quali non avremmo potuto ricomporre i frammenti. È lì che nacque l’amore tra me e Paola Cinti, tuttora la mia compagna dopo 24 anni.
Una parte di quei minuscoli pezzi è oggi in deposito. Quanto avete recuperato?
Su 300mila frammenti complessivi ne abbiamo ricollocati 220mila. Circa l’80% della vela di Giotto e un 20% della vela del Cimabue. Ancora oggi ho in custodia circa 80mila frammenti della Vela di Cimabue, che non siamo riusciti a ricollocare perché troppo piccoli. Basile chiese a università che si occupavano di informatica di trovare un programma per ricollocarli al posto giusto, ma ad oggi non lo abbiamo. Ora quei frammenti, scannerizzati e depositati in cassette, attendono che, forse, un domani si riesca a ricomporli, però sarebbe così costoso che non so se ne varrebbe la pena. Con la stessa metodologia sono stati ricollocati i frammenti del Mantegna alla Cappella degli Eremitani a Padova. Quello di Assisi fu definito il puzzle più grande del mondo ed era vero: 200 metri quadrati di superficie crollata.
La sua storia ha un capitolo doloroso. Il 19 febbraio 2015 «la Repubblica» pubblicò, a partire dalla prima pagina, un articolo dove parlava di scempi su Giotto, Cimabue, Pietro Lorenzetti, Simone Martini, nei restauri dei transetti nella Basilica Inferiore. Ci ricorda che cosa accadde e come finì?
Stavamo facendo la manutenzione al ciclo di Lorenzetti e fu un fulmine a ciel sereno. Tutto ciò che venne scritto non era vero. Non sapevo come difendermi. Dal 1970 a oggi ho sempre lavorato dalla mattina alla sera sui cantieri. Stetti male anche fisicamente. Abbiamo un’azienda con dipendenti. Volevo abbandonare, non volevo rispondere ai giornalisti che chiamavano da tutto il mondo perché Tomaso Montanari, che non conoscevo e non avevo mai visto, aveva scritto che io stavo rovinando gli affreschi. Il custode di allora, Mauro Gambetti, oggi cardinale, mi disse di continuare a fare il mio lavoro. Dopo di che gli ispettori del Ministero dei Beni culturali, mandati a verificare la veridicità delle accuse, si accorsero che non eravamo neanche intervenuti sugli affreschi «incriminati».
Tra tanti cantieri della sua vita a quale è rimasto più affezionato?
Sarebbe troppo facile dire Simone Martini, Giotto, Cimabue, Lorenzetti ad Assisi, oltre a Piero della Francesca, Perugino, Pinturicchio, Beato Angelico, Filippo Lippi ecc. ecc.: è all’intera Basilica di San Francesco che sono più affezionato. Parlo al singolare, però devo molto di quanto ho fatto anche ai nostri collaboratori. Vado fiero per quanto abbiamo insegnato ai nostri ragazzi, sia io che Paolo Virilli. Sono grato ai soprintendenti e ai Custodi di San Francesco. Se mi hanno tenuto cinquant’anni vorrà dire che ho fatto bene. Però per me la Basilica non è solo restauro: è casa, è famiglia, infatti i frati sono stati la mia guida umana, sociale e spirituale.
Quanto è fondamentale la manutenzione di un monumento? In Italia non la si trascura troppo?
Esatto. Dopo il terremoto del 1997 si decise di creare un gruppo di manutentori che si prendesse cura del monumento. Basile era d’accordo e la Fondazione San Francesco lo istituì. Gli operai tolgono erbacce, puliscono le gronde, riparano tegole rotte. Ogni mattina il Custode ora in carica, padre Marco Moroni, porta l’elenco delle cose da fare ed è una fortuna avere dei custodi così attenti. La manutenzione costa meno, permette di prendere in tempo tutto, hai sempre sott’occhio l’opera.
Il grande afflusso di fedeli e turisti, perlopiù nella Basilica Inferiore, non fa bene agli affreschi, vero? Ma se il Sacro Convento istituisse un biglietto non tradirebbe lo spirito stesso della chiesa francescana?
Da anni abbiamo problemi di climatizzazione. Quando sono arrivato nel ’74, passavano 7-800mila persone all’anno, oggi sono cinque-sei milioni. Con 10mila metri quadrati di affreschi, l’unico ricambio dell’aria è dato dalle porte anteriori e posteriori. I frati vogliono che la Basilica rimanga un luogo francescano per eccellenza, con l’ingresso gratuito come gratis è anche il museo. Dobbiamo ringraziare in parte il Ministero della Cultura, che ogni anno stanzia una somma per la manutenzione cui si aggiungono dei benefattori. Dove siamo intervenuti nei recenti restauri, abbiamo riscontrato uno strato di sporco eccessivo, dopo i restauri degli anni ’70-’80 e ciò è dovuto al flusso di milioni di persone. Grazie a un programma di manutenzione annuale, riusciamo ad assicurare una corretta conservazione dei cicli pittorici.
Che cosa resta da restaurare?
Per volontà del Custode non faremo cantieri all’interno della Basilica, né per il Giubileo, né per l’ottavo centenario della morte di san Francesco, nel 2026. Riprenderemo dopo con il ciclo del Maestro di San Francesco nella Chiesa Inferiore. Mentre non sarà mai sospesa la manutenzione ordinaria, che consiste nell’eliminazione del deposito di pulviscolo e nella rimozione di ragnatele.
È felice di essere un restauratore?
Sì. A 72 anni il lavoro mi piace ancora molto, ho avuto la fortuna in questi anni insieme al mio collega Virilli di mettere le mani su capolavori assoluti. Ringrazio tutti i collaboratori della Tecnireco, restauratori, storici dell’arte, tecnici e amministrativi, che mi hanno accompagnato in questi cinquant’anni di lavoro. Se mi chiedete se ho un hobby vi rispondo: restaurare opere d’arte.
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