Franco Fanelli
Leggi i suoi articoli«Le stanze piccole ravian lo ingegno» diceva Leonardo da Vinci. Ma quella in cui ci ha condotto Francesco Nucci, presidente della Fondazione Volume! nella sede di via San Francesco di Sales a Roma, non sembrava una stanza e a dire la verità non si capiva neanche quanto fosse grande. Un abbagliante colore giallo la rivestiva completamente, non si vedevano spigoli, angoli, pareti definibili. Era come galleggiare in una luminosissima nebbia. Su quello che forse era il pavimento giaceva un berretto da baseball e la figura disegnata sopra la visiera ci osservava. Non si capiva se si trattasse di una minaccia o di una semplice richiesta di dialogo. Era l’opera di Catherine Biocca (1984).
Sveliamo quanto sopra solo ora che la mostra si è conclusa, perché, come si vedrà in quest’intervista, il padrone di casa tiene molto all’effetto sorpresa. Ora, sino al 15 aprile, nello spazio «duale» di Volume! è di scena Davide Domino (Udine, 1973) con un intervento intitolato «Quando il bambino era bambino», invito al visitatore a volgere lo sguardo verso l’età della purezza. Biocca e Domino si sono aggiunti all’ormai lungo elenco di artisti che, dal 1997 ad oggi, si sono misurati con Volume!, anomalo spazio per l’arte ricavato da Nucci nel 1997 in una ex vetreria di Trastevere.
Da Kounellis a Sol LeWitt, da Nunzio a Regina José Galindo, da Gregor Schneider a Marina Abramovic, gli artisti invitati da Nucci hanno avuto la possibilità di rimodellare completamente lo spazio, abbattendo pareti, scavando nei pavimenti, dislocando il percorso. Ora la sfida si è complicata. Lo spazio è infatti diviso in una zona «neutra» (prima una sorta di sala d’attesa e ora un luogo dove gli artisti potranno proseguire con la tradizione costruttiva-decostruttiva di Volume!) e in una stanza segreta, rimodellata da Nucci con l’architetto Michele De Lucchi.
Francesco Nucci, Volume!, questo spazio che cambia continuamente, è un po’ una trasposizione della sua vita. In quale misura questa nuova strutturazione ha un rapporto con la sua professione di neurochirurgo?
Con Volume! ho lasciato libertà di lavoro agli artisti: io godevo nel costruire quello che costruivano, perché per me era più interessante il viaggio piuttosto che l’arrivo. In certi momenti pensavo addirittura che la mostra potesse durare non più di 4-5 giorni, mi pareva che dopo quel tempo la mostra si esaurisse, dal momento che la cosa più importante di un lavoro fatto a Volume! è la sorpresa. Quando comprai questo spazio mi dissi: «Ci devo fare qualcosa per l’arte», ma nulla che avesse un risvolto economico. Io vivo del mio lavoro. Mi interessa, se io do qualcosa, riceverne qualcosa sotto il profilo umano e della conoscenza. Come neurochirurgo mi occupo della mente e della rimappatura cerebrale post trauma, quindi parto sempre da un punto fondamentale: il nostro cervello non è una «lastra» con qualcosa di già scritto, ma è una cosa che si scrive giorno per giorno. Il cervello è un qualcosa che lavora e cambia continuamente. Assorbe e modifica qualsiasi cosa succeda per cercare di costruire sempre nuovi circuiti, abolendone altri. Quindi c’è un qualcosa che si acquista e un qualcosa che si perde. Sono arrivato a conclusioni diverse sia sulla percezione sia su tutto il sistema nervoso e sulla mappatura cerebrale che viene modificata dai sensi.
Cioè?
Quando c’è un danno cerebrale si può perdere una parte della vista, una parte del tatto o una parte dell’olfatto. Il cervello ha una capacità incredibile di fare occupare dalle zone vicine la zona cerebrale che era deputata a punti di raccolta e di smistamento dei sensi. Questo continuo trasformarsi è la cosa che mi interessa di più anche con Volume! perché quando acquisisco un’opera che mi piace, tutti i giorni che la rivedo è sempre diversa. Perché? Perché anche la memoria, che sembrerebbe una cosa fissa, non è mai uguale a sé stessa, ma viene rimaneggiata continuamente. E allora ciò che uno pensa di ricordare, è solo una copia sbiadita di una cosa che si rinnova continuamente. Ci si può appropriare anche delle memorie di altri, e allora viviamo un’esperienza che non abbiamo mai vissuto.
Come si comporta il cervello con i sensi?
I processi sensoriali sono sempre gli stessi: trasmissioni elettriche e chimiche. Il cervello è al buio, una scatola chiusa, non entra nulla a meno che non si faccia un buco. Non entra luce e tutto si svolge in un’oscurità completa. Quindi a che cosa gli servono i sensi? A leggere il mondo. Ma il cervello si inventa il mondo come vuole, ogni volta. Il lobo sinistro del cervello è come un interprete: quando noi compiamo un’esperienza, cerchiamo sempre di dare un senso a quello che abbiamo appena vissuto. Ma il senso, inteso come significato, alla fine, lo decide il cervello. E lo decide conferendo all’esperienza il senso che fa più comodo a lui. Spesso, infatti, il cervello inventa un sacco di fesserie, è un bugiardo spaventoso.
Mi spiega allora che cosa succede nel momento in cui io contemplo la Venere di Botticelli?
Quello che entra nell’occhio è già scomposto in diversissime parti. Non entra un’immagine intera, entrano linee oblique, linee curve, dritte, lontane, vicine, cose colorate, senza colore... Sono diversi elementi che attraversano diverse strade, poi si collegano, inizia una piccola raccolta, arrivano nella parte posteriore del cervello, qui vengono elaborate e mandate alla corteccia cerebrale, che le elabora secondo le proprie esperienze. Ma quello che vede lei non è quello che vedo io. Ma non decidiamo noi, decide il cervello.
E questo come si connette con l’arte?
Io mi sono posto altre domande: dove sta l’utilità di una cosa come Volume!? A chi serve Volume!? A me, perché io mi diverto. Per me conoscere un artista e seguirlo non è come possedere un’opera. L’opera mi interessa pochissimo alla fine, mi interessa il modo di procedere, perché gli artisti sono personaggi non a caso definiti strani. L’artista ha le capacità di trasformare i suoi pensieri in qualcosa che esiste e quel qualcosa è un prodotto finale che non è dell’artista. È copiato dalla storia. È copiato da tutto. È copiato dall’esperienza che quasi sempre poi rinnega: dopo qualche giorno non gli piace più, lo mette da parte, o lo ritocca o lo rivede. È una continua evoluzione, un lavorare su dei concetti, un qualcosa che è riuscito a capire del mondo, qualcosa che io non so. Forse l’artista è l’unico ad avere una comunicazione superiore. A me interessa più che altro come l’artista riesce a esprimere un mondo che gli appartiene e di cui io posso fare parte. Per me è di vitale importanza e penso che sia lo stesso anche per gli altri, nel senso che è una forma di conoscenza, un modo di leggere, è come un viaggio, si viaggia per conoscere. Attraverso l’arte si conoscono mondi che non sono il nostro.
La «camera segreta» che ha creato a Volume! è stata concepita per favorire il viaggio di cui lei parla?
Volevo rendere molto particolare uno spazio, tanto particolare che chi andava a vederlo era costretto a focalizzarsi sull’opera. Là se cade uno spillo per terra lo si vede. Se c’è dentro qualcosa, lo devi vedere per forza, ti ci devi relazionare e io favorisco questo processo eliminando tutti i disturbi che ci possono essere in uno spazio: le curve, la luce, l’ombra, gli spigoli. L’unica chiave di lettura di un’opera d’arte per me consiste nel rapporto uno a uno. Da ragazzo non vedevo l’ora di vedere la Gioconda. Andai e non vidi niente, cioè vidi quello che c’è su una pagina di libro. Vidi, in mezzo a decine di visitatori, l’immagine che conoscevo, non potei entrare nei particolari, eppure l’opera diventa interessante nel particolare. Se di un’opera si leggono i particolari avremo di fronte a noi sempre un’opera diversa. Il particolare e la ricostruzione dei particolari sono tutto, sono la vera lettura del percorso compiuto dal pensiero dell’artista.
Gli «Ambienti spaziali» di Fontana hanno qualcosa a che fare con la sua stanza segreta?
No, sono altre esperienze. Però il taglio... Il taglio non te l’aspetti. Un taglio è una caverna che può essere pericolosissima o può essere un punto di salvataggio. Non è una ferita. Quasi tutte le immagini e gli scheletri sono stati ritrovati nelle fessure perché erano una salvezza, offrivano una possibilità di sopravvivere a un mondo terribile.
L’arte ha una funzione terapeutica?
Non si tratta di una funzione terapeutica o una funzione paramedica, ma di qualcosa di molto di più di tutto questo. Lei sa perché molti raccontano che, in occasione di situazioni al limite della morte, hanno avuto la sensazione di essere da un’altra parte e di osservare ciò che stava succedendo in una luce fortissima, in una bellissima atmosfera? Perché nel momento in cui si è tra la vita e la morte il nostro corpo emette sostanze allucinogene, acido lisergico in particolare, che ci danno la sensazione di volare da un’altra parte. Negli animali è molto presente una cosa del genere: una gazzella tra le fauci di un leone che la sta sbranando, è tranquilla per questo motivo. Questo mi ha fatto riflettere moltissimo su quella che è la realtà della nostra vita. Non è che quella stanza a Volume! rappresenti una cosa del genere, ma la vita è fatta di piccole cose, non è che dobbiamo scervellarci per dare una spiegazione logica su tutto. Siamo destinati a nascere, vivere e morire: facciamolo allegramente, con piacere. Per me l’arte è una forma di questa distrazione perché volenti o nolenti gli artisti sono completamente allucinati, hanno visioni che ti sembrano assolutamente pazze. Però, se poi li segui, c’è un filo logico, è una scuola di vita. A Volume! ho tenuto a invitare sempre, tranne rare eccezioni, un artista diverso, perché ogni esperienza è unica, non si può ripetere con la stessa persona un’esperienza, perché c’è la memoria di quella vecchia e quella nuova non te la godi. Quanto agli effetti terapeutici... Per me Volume! ha rappresentato una valvola vitale fondamentale, considerata la realtà con cui quotidianamente mi mette a contatto il mio lavoro di neurochirurgo. Voglio vivere una parte della mia vita in un’altra dimensione, un mondo diverso ma parallelo.
Tutti gli artisti scelti si sono rivelati adatti a creare un’opera per Volume!?
Assolutamente no, ma non perché lo dico io. Lo dicono loro. Si ritirano. E nessuno dei ritirati ha mai ripresentato un progetto, tranne Boltanski. Mi ricordo quando venne da me la prima volta: ha guardato, ha fatto un giro e ha detto che lo spazio era troppo piccolo e poco interessante. Dopo un paio d’anni, nel 2011, passava da Roma, mi ha telefonato, mi ha chiesto se ci incontravamo e mi ha detto: «Sono due anni che penso a te». E mi ha spiegato il funzionamento di tutte quelle carrucole che scorrevano con le immagini... Era il progetto che nello stesso anno ha portato in una veste completamente diversa alla Biennale di Venezia, ma il «mio» era più bello e lo ha ammesso anche lui.
Quanto hanno influito le restrizioni imposte dal Covid-19 in questa svolta di Volume! verso una maggiore intimità?
Ben prima del Covid-19 mi ero posto un problema: in quale spazio può essere contenuta un’opera interessante, dove una persona abbia 10 minuti per sostare e fermarsi a vederla? Quella persona, se lo desidera, ora è costretta a entrare in un buco. Il mio principio essenziale era che secondo me anche un piccolo spazio può essere interessante come un grande spazio se l’artista ha qualcosa da dire. Ora Volume! è composto da due ambienti diversi: uno è una stanza per pochi e l’altro uno spazio per tutti. Il messaggio di questa stanzetta è questo: non è importante il valore dell’opera in sé stessa, ma è il valore che essa riveste per il suo autore, se egli sente così sua quell’opera da non separarsene mai, come non ci si separa da un talismano. Chi vi entra vede una cosa che gli altri non possono vedere. È un privilegio necessario.
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Artista, bibliotecario, insegnante privato di francese, organizzatore e geniale allestitore di mostre: il suo celebre orinatoio capovolto è stato considerato l’opera più influente del XX secolo. Usava lo sberleffo contro la seriosità delle avanguardie storiche, e intanto continuava a scandagliare temi come il corpo, l’erotismo e il ruolo dello spettatore
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