Ci risiamo. Basta che Ponte Vecchio e dintorni vengano per qualche istante illuminati dai loghi di alcuni sponsor di un festival e le polemiche fioriscono. I toni vanno subito sopra le righe quasi per etologica risposta. Il direttore degli Uffizi Eike Schmidt, «inorridito», parla di efferatezze. Il guru della pubblicità, Oliviero Toscani, parla di «cagate».
La politica pure s’indigna. Lo fa con le componenti della sinistra dura e pura con la testa rivolta al secolo breve defunto da vent’anni. Sembrerebbe che i nostalgici dello stato etico si ritrovino abbracciati da un comune sentimento di ostilità a tutto ciò che sa di «economia» (eppure, credo che gli Uffizi vendano a caro prezzo le fotografie dei propri quadri).
Lo sapevo, non lo sapevo: il balletto tra le istituzioni non dice nulla di nuovo. Il soprintendente però minaccia denunce penali e la butta in benaltrismo mettendo insieme sponsor, Covid-19 e Ospedale degli Innocenti. L’assessore alle partecipate del Comune prova a distinguere tra pubblicità e gesto di cortesia verso chi aveva pagato la manifestazione... Ci sarebbe da voltar pagina e non perdere altro tempo.
Ma un po’ di cose questa storia ce le racconta. La prima è che non stiamo parlando di tutela. Ma di quella cosa scivolosa che va sotto il nome di «decoro»: per qualcuno un fascio di luce con scritte su un muro è una decorazione, per qualcun altro un affronto. Direi che la sola cosa concreta in questo caso è la proprietà del muro. Se lo uso per una mia proiezione il permesso al proprietario dovrei pur chiederlo, e non solo per cortesia.
Nel decoro incespica anche il buon sindaco Dario Nardella. Se il nome di uno sponsor non è appropriato «a quei luoghi», come sembra aver detto, la domanda è: quali luoghi? Se un monumento storico non può sopportare una pubblicità, che cosa dobbiamo pensare? Che la pubblicità sporca? Che quello che può stare per mesi e anni sull’impalcatura di un restauro non si può leggere per qualche minuto su un muro in carne e ossa? Dobbiamo adeguarci a questa doppia morale, o si tratta solo di una questione di gusto, e ognuno ha il suo?
Una targa fissa può commemorare in eterno il gesto di uno sponsor che ha pagato il restauro di un monumento, ma un fascio di luce di pochi secondi al contrario lo inquina a morte. Il discorso si sposta sul ruolo del mecenatismo. All’intellighentsia conservatrice piace quello puro, quello filantropico dei signori del Settecento, quando le cose erano quelle che erano, le strutture politiche e sociali erano indiscutibili e il bene lo facevi per pulirti l’anima in attesa del purgatorio.
La gente del marketing, pontifica qualcuno, se ha l’onore di occuparsi di cose che non le appartengono (arte e cultura…) paghi e stia zitta… «Quella è roba nostra». È la visione «proprietaria» del patrimonio da parte di un ceto o di una Pubblica Amministrazione, che difende un muro da un fascio di luce e trova del tutto normale che ai cittadini italiani sia negata finanche la libertà di panorama...
Nel dopoguerra la sfilata di Dior sull’Acropoli di Atene segnò la ripresa di una vita normale, dove passato e presente potevano convivere rispettosamente in sinergia. Oggi, dopo decenni di devastazione urbanistica e ambientale, alcuni monumenti sono considerati affettivamente sensibili. Potrebbe essere un bel passo avanti, se non fosse che la sensibilità può generare quella suscettibilità che impedisce ogni dialogo. Taglia la lingua e frena il pensiero, tanto più quello che non si adegui a un melenso pensiero unico, senza argomenti ma ricco di parole.
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