Marco Scotti
Leggi i suoi articoliIl 19 e 20 novembre a Venezia, nel cuore della settimana conclusiva della 60ma Biennale d’Arte, è andato in scena «Ina Lou / Dear Mother Earth: Sea, Soil and Solidarity», un simposio organizzato da Cristina Baldacci, Natalie King, Francesca Tarocco per mettere in dialogo padiglioni tra il Sud-est asiatico, il Portogallo e Timor-Leste, con talk, performance e proiezioni di film intorno ai temi dell’ecologia nelle pratiche artistiche, del suolo e dell’acqua. Proprio questo elemento è al centro del film di Antonio Rovaldi ed Ettore Favini «To Say Nothing of The Dog» proiettato per l’occasione; progetto nato per il 48mo Premio Suzzara e opportunità per ripercorrere con lo stesso Favini (Cremona, 1974) la sua ricerca, arrivando a toccare i percorsi più recenti all’interno del suo lavoro, in movimento lungo le sponde del Mediterraneo.
Partirei chiedendole di raccontare il film «To Say Nothing of The Dog».
È il racconto visivo di un viaggio fluviale compiuto con Antonio Rovaldi dentro una piccola imbarcazione di ferro lungo l’ultimo tratto del Po, fino alla sua foce nell’Adriatico. «To Say Nothing Of The Dog» accompagna l’osservatore a guardare il fiume dal suo interno e a riprendere confidenza con un tempo di attraversamento lento dei luoghi che oggi sta scomparendo: la navigazione di un fiume e la vita lungo le sue sponde. È un lavoro che mi sorprende sempre, che rivedo sempre con piacere e che si è ripresentato in questi giorni a Venezia. Ringrazio Cristina Baldacci per averci dato l’occasione di mostrarlo un’altra volta al pubblico.
Il grande fiume è un elemento importante e ricorrente nelle sue ricerche. Da dove parte questo suo interesse?
Più che il fiume in sé sono interessato all’acqua come elemento fondamentale per la nostra esistenza su questo pianeta. Mi interessa perché l’acqua nel suo scorrere conserva il tempo, ma allo stesso tempo è un elemento mutevole, si trasforma nei suoi tre stati, evapora, diventa nebbia, pioggia, neve, ricade sulla terra, entra nel terreno e nelle sue profondità, riemerge, scorre, da fiume diventa mare in un processo lungo e incessante.
Il territorio, il paesaggio e l’ambiente naturale in molti suoi lavori sono al tempo stesso campo di indagine e spazi per una visione futura. Oggi che rapporto c’è tra questi elementi e le sue opere?
Credo sia un legame indissolubile. Molto spesso i luoghi o il paesaggio diventano storie da raccontare: ad esempio, nella mia ultima mostra «Tappetaro» alla galleria Triangolo di Cremona (conclusasi il 2 novembre, Ndr) una montagna diventa una scultura in terracotta che assume la funzione di una tajine; il monte Oukaimeden è stato trasformato in una pentola che ha «cucinato» la mia esperienza in tutte le opere presenti in mostra.
Molti suoi lavori si muovono tra singolare e plurale, includendo le comunità in fasi diverse del progetto e restituendo sempre qualcosa alle stesse comunità. Da dove nasce questo approccio?
Muovermi in modo processuale è ormai naturale nel mio agire. L’artista troppo spesso è una figura solitaria: a me piace dar vita a comunità temporanee durante fasi diverse della creazione dell’opera, coinvolgere e rendere partecipi, rinunciare all’ego, ripensando così anche il ruolo dell’artista all’interno della società. Sono piccole azioni, microgesti che mi permettono di operare in modo etico.
La tessitura come gesto, come parte di memorie ma anche come elemento simbolico sembra sempre più al centro del suo lavoro, a partire dal viaggio intorno al Mediterraneo cominciato in Sardegna con «Arrivederci». Dov’è arrivata oggi questa sua indagine nomade?
Penso che sarà una ricerca che mi accompagnerà sempre. Quando è iniziato tutto, grazie all’invito di Lorenzo Giusti per la personale al Man di Nuoro (aprile-luglio 2016, Ndr), ero convinto di poterla portare a termine in qualche anno, ma a quasi dieci anni di distanza mi rendo conto che la ricerca «mediterranea» si stratifica sempre di più. Ora sto indagando le profondità del mare e dei suoi relitti in una mostra che spero veda la luce nel 2025.
La sua ricerca è spesso connotata da elementi di continuità, da tempi lunghi, viaggi e connessioni. La citata recente mostra da Triangolo a Cremona ha origine con una residenza sull’Atlante in Marocco e il progetto vedrà un nuovo capitolo a Rabat. Può raccontarci questa storia?
Il viaggio è un altro elemento alla base del mio modo di operare, viaggiare mi predispone infatti alla scoperta e alla conoscenza. Nel 2017 avevo partecipato a una residenza sull’Alto Atlante dove ho trascorso un mese. Il mio desiderio era quello di realizzare un tappeto berbero, trasformando un simbolo che avevo portato dalla Sardegna ibridandolo con un’altra cultura. Poi però ho raccolto vari elementi che ho sedimentato e grazie a una lunga conversazione con il critico ed editore Abdellah Karroum questi sono diventati la mostra «Tappetaro». In galleria era esposto un corpus di nuove opere che hanno visto la luce dopo sette anni dal mio viaggio, ma di nuovo grazie al confronto che, probabilmente, mi riporterà in Marocco il prossimo anno. Ora quella conversazione è esposta fino a gennaio a Rabat a L’appartement 22, in una mostra d’archivio che celebra i 22 anni dello spazio espositivo e di residenza aperto da Karroum.
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