Vittorio Sgarbi
Leggi i suoi articoliDopo gli anni difficili del «Corriere», Giulia Maria Crespi, impaziente, si lanciò in una nuova avventura. E fu l’impresa della vita: il Fai. Così entrò nella leggenda a fianco di un uomo straordinario, Renato Bazzoni, il cui viaggio, in un'Italia fino a pochi anni prima intatta, ispirò a lei la missione di salvare luoghi remoti e dimenticati. La capii fino in fondo quando, a Salemi, esposi le fotografie di Bazzoni entro l’aura del mito, a fianco di quelle degli stessi siti e paesaggi nelle condizioni attuali dopo la devastazione che, nel 1975, era già molto avanzata.
Con altre due anime sensibili, Alberto Predieri e Franco Russoli, elaborarono uno statuto che io avrei voluto integrare, come un dipartimento, al Ministero dei Beni culturali. I nostri rapporti si fortificarono fino a diventare una stretta amicizia quando, sottosegretario ai Beni culturali, inaugurai una delle sue imprese più formidabili, nella sprezzatura di non riqualificare, ma semplicemente di curare, il giardino di Kolymbethra nella valle dei templi di Agrigento. Ma la storia era nata molti anni prima, quando io entrai come ispettore nella Soprintendenza del Veneto, nell’anno della prima donazione al Fai di un vasto terreno a Panarea che, grazie alla Crespi, rimase il paradiso che era stata.
Nel 1977 Emanuela Castelbarco, nipote di Arturo Toscanini, donò al Fai il Castello di Avio, e la fondazione iniziò lunghi interventi di restauro per salvare il bene dal degrado. Con questa acquisizione il Fai stabilì il principio che i donatori e i loro eredi possono godere del diritto di abitazione in una parte della dimora donata, senza partecipare alle spese di restauro, manutenzione e custodia.
Io conoscevo quella proprietà, e compresi subito l’intelligenza di salvaguardare con il bene anche l’esperienza e la storia di chi lo aveva, a sue spese, in anni sempre più difficili, conservato. Emanuela Castelbarco fu l’esemplare cavia di proprietari che si affidarono alla tutela del Fai, ben più sicura di quella dello Stato, superando profeticamente l’antico conflitto tra pubblico e privato.
In quello stesso 1977 iniziano i lavori di restauro per il Monastero di Torba, acquistato proprio da lei, per donarlo al Fai e salvarlo dal totale deperimento. L’impresa cresce, le banche assistono intelligentemente Giulia Maria che deve purtroppo essere selettiva, mentre l’esercito di sentinelle e attivisti del Fai si moltiplica, fino a trovare nel giovane Marco Magnifico un colonnello e poi un generale, in perfetta sintonia con le idee di Giulia Maria. Ma il Fai non è lo Stato, anche se si muove con la medesima autorevolezza e con la forza di salvaguardare per tutti i beni di pochi.
Nel 1981 la famiglia De Grossi donò il Promontorio e Torre di Punta Pagana a San Michele di Pagana, frazione di Rapallo, e nel 1983, sempre in Liguria, la famiglia Doria Pamphilj affidò al Fai il borgo di San Fruttuoso, con l'abbazia benedettina del XIII secolo e trentadue ettari di macchia mediterranea, un intero borgo da restaurare, e il Fai decide utilmente di far collaborare la piccola comunità che vi abita. Nel 1984 Elisabetta de Rege Thesauro Provana del Sabbione dona al Fai il Castello della Manta. Nel 1986 la Italsider la Baia di Ieranto; nel 1987 il Fai acquista Castel Grumello, mentre la famiglia Carbone ottiene la gestione di Casa Carbone a Lavagna. Tra il 1988 e 1989 il Fai acquisisce il Castello di Masino, la Villa del Balbianello, la Villa Della Porta Bozzolo e la Torre di Velate.
Negli anni si intensificarono i nostri rapporti, e lei aveva inteso come una sorella maggiore, non una madre, il mio entusiasmo e la mia irruenza, giudicandomi, in tanti incontri sospettosi ma affettuosi, per due terzi un demonio e per un terzo un angelo, fino a coltivare una passione amicale che le faceva perdonare il mio non essere, o non apparire, di sinistra. Acquisti sofisticati furono il Maso Fratton-Valaja ai confini del Parco naturale dell’Adamello-Brenta, l’edicola di giornali ottocentesca a Mantova o la barberia Art Déco a Genova. Chicche di un gusto nostalgico.
Ma inarrivabile resta Kolymbethra, nel confronto impietoso con il triste gusto della Regione, che infierisce nell’ambiente circostante. Sono certo che se avesse conosciuto, o se le avessero segnalato, Isola Polvese sul lago Trasimeno, dove sono ora, Giulia Maria ne avrebbe fatto uno dei suoi «luoghi del cuore», così come si chiama l’iniziativa che, con tanti militanti, porta all’attenzione del mondo monumenti e siti pervicacemente dimenticati. Nella varietà dei suoi interessi entra anche la fondazione Panza di Biumo, con l’arte contemporanea guardata con sospetto dal meraviglioso architetto Guglielmo Mozzoni, suo impareggiabile marito, lunare e e acutissimo. Mentre il dialogo con lo Stato il Fai lo garantisce nella gestione di Villa Gregoriana a Tivoli.
Nel 2008, la storica azienda vinicola siciliana Donnafugata dona al Fai un leggiadro giardino sull'isola di Pantelleria; sempre nel 2008, dopo tre anni di lavori di restauro, è stata aperta al pubblico Villa Necchi Campiglio nel cuore di Milano, con la collezione di Claudia Gianferrari. Nel 2011 arrivano Villa dei Vescovi a Luvigliano di Torreglia, capolavoro del Falconetto, maestro di Palladio, e proprietà Olcese; e il Bosco di San Francesco ad Assisi.
Quanti luoghi, quanti incontri, quanti amici perduti! Penso al marchese Boso Roi, dandy perfetto, che donò al Fai la villa Fogazzaro a Oria Valsolda; penso a Carlo Scarpa, nella varietà eclettica delle scelte di Giulia Maria, il cui negozio Olivetti a Venezia è conservato dal Fai. Penso al Castello di Manta, al monastero di Torba, alle saline di Assemini. Giulia Maria sceglieva meraviglie per mostrarle al mondo e, nella sua casa, i capolavori di Canaletto, di Defendente Ferrari, di Paris Bordone, di Rosalba Carriera, di Vincenzo Foppa, di Bernardo Daddi, di Favretto, di Morandi, di De Pisis (il languido ed erotico «San Sebastiano»!) lasciavano intendere che, con lo stesso principio, i Crespi avevano selezionato dipinti di ogni scuola.
Ora la sua casa sarà il luogo estremo del Fai. Non ne posso dubitare, dopo che spiriti vigliacchi che lei aveva onorato, come Tomaso Montanari, vollero sfregiarla, senza che l’amicissimo Settis alzasse un dito, per la vendita di un Alberto Burri. Eppure il «Grande legno e rosso» di Burri ha seguito la via legale per la spedizione all’estero. Ha ottenuto il permesso da un ufficio esportazione del Mibact, tutto in regola. Aggredirla fu una vergogna di vili davanti a un’anima gentile per cui la storia diventava cura, affetto, carezza.
Perché non si può dare che la bellezza salvi il mondo, se il mondo non salva la bellezza. E Giulia Maria, più e meglio di qualunque ministro e soprintendente, lo ha dimostrato con la sua integra vita.
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