Federico Castelli Gattinara
Leggi i suoi articoliEra il 26 settembre quando l’aereo è decollato da Fiumicino alla volta di Teheran, dieci giorni esatti dall’uccisione della giovane curda iraniana Mahsa Amini, 22 anni, da parte della polizia «morale», per non aver indossato l’hijab in modo corretto. Le proteste scoppiate immediatamente dopo non avevano ancora incendiato il Paese, la Farnesina suggeriva prudenza, tracciabilità, non sconsigliava «viaggi a qualsiasi titolo in Iran», come farà a partire dal giorno del nostro rientro, il 10 ottobre scorso. La nostra è quindi una delle ultime testimonianze dirette di viaggiatori italiani, e tramite il podcast Underskin: Storie dall’Iran accompagnerà le fotografie di artiste e artisti iraniani in mostra, disponibile anche dopo on demand.
Le notizie in Occidente si inseguivano, si accavallavano, capire come stavano le cose non era facile. Non è mai facile, standone fuori. Due settimane di viaggio, in un Paese vasto oltre cinque volte l’Italia, con alle spalle una storia lunga cinquemila anni, ricchissima dal punto di vista dell’arte, della cultura, del pensiero, della spiritualità, sono niente; ma parlare con le persone, respirare quegli odori, godere di quei cibi, ammirare la ricchezza delle forme d’arte che dall’antica Persia passa attraverso secoli di Islam, aiuta moltissimo la comprensione.
Poi, con l’immaginazione, si integra il contemporaneo che è vivace, ma i cui protagonisti sono in gran parte espatriati, perché il regime degli ayatollah teme e reprime ogni libertà con ottusa ferocia: una rosa di cineasti d’eccezione, costretti a girare i loro film in altri Paesi, svariati artisti visivi, e le leggendarie collezioni del museo d’arte contemporanea di Teheran sepolte nei depositi: 1500 opere di artisti internazionali dalle avanguardie storiche del ’900 in poi, una trentina di Picasso, una dozzina di Jasper Johns e Robert Rauschenberg, almeno quindici Warhol.
Ma l’Iran è unico e stupefacente non solo per questo, ma perché la demonizzazione che ne ha fatto l’Occidente per decenni, per motivi politici, contrasta con la grande complessità della sua storia e cultura, che si scopre solo una volta sul posto. In Iran è nata la prima religione monoteista al mondo, lo zoroastrismo, e il primo impero della storia, quello Achemenide, fondato da Ciro il Grande e celebrato con sfarzo eccessivo 2.500 anni dopo, nel 1971, dallo scià Reza Pahlavi ai piedi dell’antica Persepoli, dove ancora oggi si vedono gli scheletri della città tendata eretta per le famiglie reali e i capi di Stato di tutto il mondo.
Durante il viaggio la rivolta contro il regime dilagava nelle piazze finendo, come ai tempi della caduta dello scià nel 1979, per estendersi dagli studenti ai lavoratori dei pozzi petroliferi, ganglio economico fondamentale, per quanto oggi un po’ meno di allora.
I morti erano già più di 200, oggi sono oltre 500, gli arrestati centinaia, oggi quasi 20mila. In Italia ci si preoccupava per noi, comprensibilmente, anche perché non funzionava niente, niente internet, social bloccati, tranquillizzavamo tutti tramite gmail, unico canale libero, e rare telefonate. Eppure in quelle stesse piazze, tra la gente, non si avvertiva l’odore sulfureo della rivolta, che pure c’era. Il tessuto sociale pareva tranquillo, forse rassegnato, nessuna tensione evidente, come se non stessero massacrando i loro figli. Le poche notizie sugli scontri a cui accedevamo sembravano parlare di un altro Paese. Si camminava tra persone di una cordialità e gentilezza commoventi.
Mai visto un popolo così aperto, curioso, partecipe, che cerca disperatamente di dare un’immagine positiva di sé e dell’Iran, diversa dai nostri pregiudizi. Con un grande orgoglio e voglia di riscatto e una pacatezza già tutta orientale, senza però la riservatezza estrema dei popoli d’oriente, che difficilmente ti permettono di avvicinarti per davvero.
Arte e cultura si respiravano dappertutto, stratificate nei secoli in una complessità che imbeveva le città. In giro per migliaia di chilometri sull’altopiano iranico, ci siamo riempiti gli occhi di bellezza. Dispiace sempre visitare un Paese attraversato da sacrosante rivolte per la libertà, ma della ferocia repressiva non si vedeva quasi niente: gruppi di agenti antisommossa in qualche piazza delle città maggiori e proteste a colpi di clacson dalle macchine in corsa.
Il regime è di una violenza inaudita, ingiustificabile, però siamo rimasti sconcertati nel vedere il quartiere ebraico di Isfahan con tutte e 17 le sinagoghe restaurate. O l’eccezionale stato di conservazione del quartiere armeno e della seicentesca cattedrale di Vank, tappezzata di affreschi. I musulmani, arrivati in Iran nel VII secolo con la conquista araba, da sempre rispettano le minoranze delle altre religioni rivelate, siano esse zoroastriane, ebraiche o cristiane. Diversamente da noi, che ci riteniamo tanto democratici, come la storia insegna.
Lo stato di conservazione del patrimonio culturale è sorprendentemente buono: i chilometrici bazar, cuore commerciale oggi spesso sopraffatto dai prodotti cinesi, gli hammam storici, molti dei quali musealizzati, i caravanserragli, le antiche ghiacciaie e le cisterne della mirabile rete sotterranea di canali che copriva distanze immense, i palazzi dei mercanti, che a Kashan gareggiavano in splendore, i celebri giardini patrimonio dell’Unesco, che oggi soffrono per la sempre più drammatica crisi idrica. Le moschee del venerdì, fulcro della religiosità sciita, offrono casi di eccezionali palinsesti: in quella di Isfahan, tra le più notevoli in Iran, sono visibili aggiunte, sovrapposizioni, restauri e ricostruzioni per oltre mille anni, quasi secolo per secolo.
Per non parlare, naturalmente, dei siti archeologici nel sud del Paese: Persepoli, il più spettacolare di tutto l’Iran, le quattro tombe reali scavate nella roccia a soli sei chilometri di distanza, con i loro grandi rilievi di epoca Sasanide, realizzati 7-800 anni dopo, con scene della vita degli imperatori, Pasargade, con la tomba di Ciro, dove è intervenuto più volte il nostro Istituto centrale per il Restauro e non solo.
Qualche perplessità invece suscita l’immenso sforzo internazionale di ricostruzione della città vecchia e della cittadella di Bam, devastate dal terremoto del 2003, che causò oltre 40mila morti. Si tratta del più grande complesso al mondo costruito in terra cruda, rimesso in piedi filologicamente, ma con risultati che ricordano più i set cinematografici di Cinecittà che non un luogo vissuto per secoli.
«Donna, vita, libertà», scandisce lo slogan delle rivolte in atto in Iran. Non lasciamo solo un popolo e una terra che è stata culla della civiltà dell’uomo e della sua immensa capacità di creare meraviglie.
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