Damien Hirst. Foto Francesco Guidini

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Damien Hirst. Foto Francesco Guidini

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Franco Fanelli

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Damien Hirst, l’uomo che ha messo uno squalo sotto formaldeide, ha tempestato un teschio di diamanti e ha compiuto da Sotheby’s un rischiosissimo «salto con l’asta» è l’impresario di sé stesso, maestro dei ballon d’essai e delle fake news.

Londra, marzo 1992. Francis Bacon, stando a una concitata telefonata di Jenny Blyth, curatrice della Saatchi Gallery, da circa un’ora non riesce a togliere lo sguardo dalle mosche che, in una teca di vetro, si avventano sulla testa di una vacca in decomposizione. Dall’altra parte del filo c’è Damien Hirst, il giovane autore dell’opera in questione, «A Thousand Years» (1990), storia di nascita, vita e morte: le larve delle mosche si sviluppano in un’incubatrice e attraverso i fori di una parete di vetro che divide in due la teca raggiungono il loro nutrimento per poi morire, fulminate da un apparecchio elettrico insetticida e accumulandosi intorno al loro pasto.

«Probabilmente ho fatto il miglior lavoro di tutta la mia vita proprio all’inizio, dichiarerà anni dopo Hirst. È come se dopo fossi andato indietro. Sono arrivato cercando un modo per attraversare la vita con l’arte. Ho due pulsanti: “On” e “Off”. Bianco o nero. È così. A volte funziona, a volte no». Lo confessa nel 1999, forse nel periodo più difficile della sua vita professionale e personale. Ma in quel giorno del 1992, a 27 anni, Hirst aveva ottenuto ciò di cui aveva bisogno: il denaro di Saatchi, e quindi la patente d’accesso al mercato che conta, e il riconoscimento da parte del suo mito Francis Bacon, e dunque l’investitura per la successione al trono del più celebre pittore britannico del XX secolo.

Il signore delle mosche
Damien Hirst si è posto molto precocemente il problema dell’aspettativa di vita delle sue opere e del suo stesso mito. Lo fece ben prima che Lucian Freud, di fronte a «A Thousand Years», pronunciasse il tremendo epitaffio: «Ok, ma hai cominciato dalla fine, mio caro».

L’elisir dell’immortalità (o della sua illusione) nella civiltà contemporanea sta nei farmaci, quelli che danno il titolo agli «Spot Painting», la formula perfetta e la più immediata per imporre un marchio universalmente riconoscibile e apprezzabile anche da chi di arte contemporanea non capisce nulla: superfici di dimensioni variabili, da pochi centimetri quadrati a formati monumentali, scandite a ritmo regolare (la famosa «griglia» minimalista) da pois di vari colori. Se lo schema è sempre lo stesso, non ne esiste uno uguale all’altro, quindi sono tutti originali.

Nel 2012 Hirst ne espose circa 150 esemplari in una mostra allestita contemporaneamente nelle 11 sedi della Gagosian Gallery: a New York, a Londra, a Roma, a Parigi, a Los Angeles, ad Atene, a Ginevra e a Hong Kong. La «ripetizione differente» e il rapporto contemplativo che queste opere instaurano con l’osservatore fanno sì che l’«esperienza» (per usare un termine molto amato dagli odierni produttori di mostre) sia ogni volta unica, quindi potenzialmente infinita. Sembrano fatti a macchina, ma sono tutti eseguiti manualmente, all’inizio dallo stesso ideatore della serie, poi dallo stuolo di assistenti di cui ben presto ha potuto giovarsi («la migliore è Rachel», tiene a precisare).

I primi risalgono al 1986, quando Hirst era studente alla Goldsmiths di Londra, dove si era iscritto dopo essere stato respinto dal Saint Martins College. Intanto, dall’altra parte dell’Atlantico, a Boston, l’Institute of Contemporary Art presentava la mostra «Endgame. Reference and Simulation in recent American Painting and Sculpture». Vi esponeva, tra gli altri, Allan McCollum, i cui «Surrogati di quadri» hanno più di una parentela con la ripetizione differente degli «Spot Painting». E Jeff Koons espose in una sorta di acquario due palloni da basket galleggianti in acqua distillata.

Koons e Steinbach, altro artista incluso nella mostra di Boston con le sue mensole sulle quali si compiva l’identificazione dell’opera d’arte con la merce di consumo, approdarono a Londra, da Saatchi, nel 1987 con la rassegna «New Art Now», insieme a Robert Gober e ad Ashley Bickerton. «Una mostra importantissima», ricorda Hirst in On the Way to Work, una serie di interviste con Gordon Burn pubblicata in Italia da Postmedia Books nel 2004.

Michael Craig-Martin, il più autorevole degli artisti docenti alla Goldsmiths, aveva impresso una radicale virata alla scuola, abolendo le barriere tra le varie discipline e aprendola maggiormente al linguaggio della contemporaneità; ma di fronte alle novità in arrivo da New York non aveva nascosto le sue perplessità. «Era la prima volta che non andavamo d’accordo con i nostri insegnanti, prosegue Hirst. Dicevano che faceva cagare, che non sarebbe durata, invece noi eravamo a bocca aperta».

Craig-Martin e gli altri docenti, come Richard Wentworth e Jon Thompson, spiega Hirst, erano infastiditi dalla «semplicità» di quell’arte, «il modo in cui se ne infischiava della storia dell’arte. Il modo in cui sembrava fuori dal tempo». Sta di fatto che se a «Freeze», la prima mostra autogestita organizzata nel 1988 al Port of London Authority Building da Hirst e dal suo compagno di scuola Angel Fairhurst (forse l’atto di nascita degli Young British Artists) in tre puntate per un totale di sedici espositori, Hirst aveva proposto i primi «Spot Painting», nello stesso anno inizia la sua lunga storia d’amore con vetrine e teche realizzando «Sinner», il suo primo «medicine cabinet», composto da farmaci e da un modello anatomico (un mix molto europeo tra Koons e Haim Steinback).

E siamo al 1990, in un’altra mostra autogestita intitolata «Gambler» e allestita in un altro edificio archeoindustriale nel quartiere di Bermondsey. È qui che Hirst espone per la prima volta il flying piece «A Thousand Years» e che si verifica l’incontro fatale con Charles Saatchi.

La teca in vetro in cui si consumano la vita e la morte di migliaia di mosche è, per chi vuole offrirne una nobile ascendenza, una memoria delle «celle» in cui urla l’«Innocenzo X» di Bacon, dei claustrofobici spazi-palcoscenici nei quali l’uomo diventa un fenomeno da baraccone lottando, contorcendosi, muovendosi con lo psicotico passo dell’animale in gabbia.

Per chi preferisce riferimenti più immediati, il pensiero va al citato acquario di Koons o alle sue vetrine con gli aspirapolvere. Segni dei tempi: Piero Manzoni affidava il suo messaggio all’etichetta su una scatoletta o su un tubo ermeticamente chiusi per indicare un contenuto variabile da merda d’artista a linee di varia estensione. Il Minimalismo più radicale avrebbe sostituito ai Brillo Boxes di Warhol enigmatici e muti parallelepipedi.

Per la generazione di Koons e di Hirst, ma anche di Gursky che fotografa come composizioni pseudominimaliste le vetrine di Prada, il contenitore, al contrario, non cela, ma esibisce al pubblico del Barnum dell’arte piccoli, grandi, subliminali mostri: uno studio ginecologico sommerso in un acquario abitato da pesci viventi («le donne sanno di pesce», semplifica provocatoriamente Hirst il messaggio di una delle sue opere più surreali e inquietanti); lo squalo che ci ha terrorizzato nel film «Jaws» di Spielberg fluttua, prigioniero, in una gigantesca teca colma di formaldeide.

Lo finanzia e lo compra Saatchi per circa 50mila sterline; nel 2005 lo rivenderà per 12 milioni di dollari a Steven Cohen, facoltoso operatore finanziario. Nessun artista della generazione di Hirst può competere con lui nella capacità di creare immagini potenti, quelle destinate a divenire nell’immaginario collettivo i simboli di un’epoca artistica. Non ci riesce Jeff Koons. Solo Cattelan, con il suo Wojtyla schiantato al suolo da un meteorite, si avvicina all’impatto visivo dello squalo del suo collega inglese.

Ma il mostro sotto formaldeide è diventato anche il Leviatano evocato da colui che più di altri sovvertirà completamente le regole del gioco dell’arte e del mercato. È come la balena imbalsamata che nel bel romanzo di László Krasznahorkai Melancolia della resistenza scatena il caos nella città in cui approda come fenomeno circense. Le parole del direttore di quel circo sembrano riassumere il transito dell’arte contemporanea da cultura di nicchia, qual era sino a dieci anni prima della Hirst Generation, a spettacolo popolare: «Il pubblico, oltre a essere immaturo e ignorante, apprezza ciò che è strano e che non capisce, in altre parole prima lo accoglie in modo capriccioso, poi lo pretende con insaziabile voracità».

L’Isola dei famosi
Alla Biennale di Venezia del 1993 Bonami chiede a Hirst di portare, nella sezione «Aperto», la sua versione della «Madonna col Bambino» (o della strage degli innocenti): quattro teche anch’esse colme di formaldeide in cui sono conservati i corpi sezionati di una mucca e di un vitello (con la stessa opera, l’anno dopo, Hirst si aggiudicherà il Turner Prize). Il bue squartato di Rembrandt, soggetto che nei secoli unisce artisti portatori di turbamenti esistenziali e romantici (Soutine, Bacon, Kounellis), ha qui la sua ultima interpretazione: l’emozione, il dramma, non hanno bisogno del furor della pennellata, dell’impasto forte della pittura a olio o del teatro installativo in cui odori e reazioni materiche fanno la loro parte.

Tutto è congelato (freeze, davvero) raffreddato. Hirst arriverà, con un’altra teca, «The Pursuit of Oblivion» (2002), a mettere sotto formaldeide, tramutandolo in un diorama, uno dei capolavori di Bacon, il dipinto del 1946 raffigurante, appunto, il banco di un macellaio con annesso mostruoso venditore sotto un ombrello.

Negli anni Novanta, nella cui prima metà Hirst scala velocemente le tappe che portano il ragazzo nato nel 1965 a Bristol da un meccanico e da una pittrice dilettante alle gallerie che dettano i ritmi del mercato, comincia ad affermarsi la figura dell’«artistar», produttore di opere costose, monumentali, vistose, colorate, armi di diffusione di massa di un’arte contemporanea concepita prima per gli occhi che per il cervello, adatta a una diffusione mediatica su larga scala.

È un percorso che, nel 2000, porterà alla prima sezione «Unlimited» di Art Basel e, nello stesso anno, alla prima opera commissionata per la Turbine Hall della Tate Modern di Londra, per un ciclo finanziato prima dalla Unilever e poi dalla Hyundai, e di lì a poco imitato dalla serie «Monumenta» al Grand Palais di Parigi. Tutto ciò ha la sua incubazione con gli anni giovanili di Hirst, di Anish Kapoor, di Antony Gormley, di Olafur Eliasson, della prima maturità di Jeff Koons.

All’inizio del millennio Hirst darà alla luce la sua opera più «koonsiana», «Hymn», un manichino anatomico giocattolo sviluppato su poco meno di sei metri d’altezza; un bronzo policromo, dipinto in maniera che sembrasse plastica, che Saatchi acquista per 1,6 milioni di dollari. In quel decennio comincia a prendere forma quel mondo alieno abitato dalle creature dei film di Matthew Barney, dai pupazzi iperrealistici di Maurizio Cattelan e Ron Mueck.

In Gran Bretagna appare ormai evidente che il Goldsmiths, dove hanno studiato alcuni fra i più affermati Young British Artists, è diventato ciò che era stata il Royal College negli anni Sessanta, quando si affermò la Pop art inglese. Vengono da quelle aule, dove la leggenda vuole che gli iscritti non fossero considerati studenti ma «giovani artisti», Mat Collishaw, Marcus Harvey, Gary Hume, Sarah Lucas, Martin Maloney, Fiona Rae, Yinka Shonibare, Sam Taylor-Wood, Gillian Wearing. Sono la maggioranza alla mostra «Sensation!», composta da opere della collezione Saatchi e curata da Marc Rosenthal nel 1997 alla Royal Academy, dove si uniscono agli altri enfant terrible del momento. Lo spettacolo prevede una visibilità senza veli.

La parata di mostri messa in pista dagli Yba su quella che con loro diventa l’Isola dei famosi del mondo dell’arte prevede il gigantesco ritratto di un’infanticida dipinto con le impronte delle manine di tanti bambini (autore Marcus Harvey), il papà morto e nudo, sempre in stile museo delle cere, di Mueck; analogamente, i fratelli Chapman tramutano in scultura una delle più cruente tavole dei «Disastri della guerra» di Goya; Marc Quinn espone un suo autoritratto scultoreo irrorato dal suo stesso sangue (manco a dirlo, in una teca).

Il ruolo di catalizzatore e di primattore di Hirst in questa fiera dell’esplicito è sottolineato dal notevole spazio che gli è riservato. Ci sono anche gli «Spin Painting», dipinti ottenuti scagliando della vernice su supporti circolari mentre un meccanismo li fa ruotare vorticosamente. Martin Maloney, artista e autore di uno dei saggi in catalogo, indica le fonti dell’inventiva di Hirst nel «suo fascino per l’elevazione del luogo comune, dell’irrilevante e del quotidiano».

Il vitello è d’oro
Il 1997, però, è anche l’anno della prima battuta d’arresto: la personale da Bruno Bischofberger a Zurigo è un fiasco colossale. Inizia un periodo difficile per lui e per il suo mercato. Alcol e droghe non contribuiscono a rassicurare sul suo stato psicofisico gli amici rimasti a Londra mentre lui si è trasferito nel Devon. A Londra torna per esibirsi, nudo e ubriaco, al pianoforte del mitico Colony, il club frequentato da Francis Bacon.

Di sicuro non fa nulla per conquistarsi le simpatie del British Council quando rifiuta di rappresentare la Gran Bretagna alla Biennale di Venezia del 1999. Ma questo gesto non ha nulla a che fare con la tradizione protestataria che ha scandito negli anni d’oro la mostra veneziana. Nel ’68, quando gli artisti per protesta voltarono contro i muri i loro quadri, Hirst aveva tre anni.

Era un bambino quando la contestazione alla mercificazione dell’arte era esercitata attraverso la messa in crisi della durata dell’opera, della sua fisicità, della sua immutabilità in ambiti concettualisti o poveristi. La contestazione al sistema, per un artista della sua generazione, diventa realmente radicale allorché tenta (senza ideologie di sorta) di scardinare gli anelli della catena del sistema dell’arte.

In tal senso, anche l’adozione di più stili e più tipologie nella sua produzione non hanno nessun intento destabilizzante: semplicemente Hirst non vuole imporre uno stile, ma un brand. L’aura, del resto, era già andata da tempo a farsi benedire, come lo stesso Benjamin aveva predetto, scrive Rosalind Krauss, «per tutta la società capitalista».

Jeff Koons e Damien Hirst tendono «a qualcosa di più dell’autopromozione», prosegue Krauss, poiché si compiacciono «nichilisticamente della merce-feticcio e della celebrità mediatica come sostituti storici dell’opera d’arte auratica e dell’artista ispirato». Hirst, più terra terra, ha dichiarato: «Già agli inizi pensavo che l’aspetto economico facesse parte del lavoro. Se l’arte riguarda la vita, è inevitabile che sia così, e se riesce a rimanere tale anche se la gente la compra e ci investe dei soldi sino a farla diventare un bene di consumo, beh, per me è emozionante».

Certo, quello attuato da Hirst è un gioco pericoloso, in cui vanno presi in considerazione anche i fallimenti. Ha tentato di diversificare le attività; ha aperto, chiuso, riaperto e nuovamente chiuso il suo ristorante «Pharmacy»; ha investito nel mattone con l’acquisto, la ristrutturazione (Studio Caruso St John) e la riconversione in galleria e sede della sua collezione personale (comprensiva di opere di Bacon, Banksy, Tracey Emin, Richard Hamilton, Jeff Koons, Picasso e Richard Prince) di tre edifici archeoindustriali a Vauxhall, a sud di Londra, per un totale di 3.500 metri quadrati. Un’operazione da 25 milioni di sterline (del 2015). Ma sa bene che per continuare a essere Damien Hirst deve rimanere quello che nel 2008 ottenne, travestito da Bono, suo grande amico, la copertina di «Time». Titolo: «Artist As Rock Star».

All’interno della rivista, un servizio riccamente illustrato annuncia che Hirst sta per tentare il salto con l’asta. Nel senso che dà mandato a Sotheby’s Londra di vendere un blocco di 223 sue opere per una stima totale di 65 milioni di sterline. Tutte le opere sono state create per l’occasione. Ci sono tutte le tipologie che lo hanno reso celebre: gli animali sotto formaldeide, le vetrine con i medicinali, le composizioni e i dipinti con vere ali di farfalla, gli «Spot» e gli «Spin Painting».

«Accetto la sfida di vendere i miei lavori con questa modalità, afferma l’artista. Non voglio smettere di lavorare con le mie gallerie. Questo è diverso. Il mondo sta cambiando e ho bisogno di vedere dove mi porta questa strada». Tradotto: se le gallerie con cui lavora, la White Cube e Gagosian, hanno una preoccupante quantità di suoi invenduti in magazzino («The Art Neswspaper» svela, documenti alla mano, che nella sola White Cube giacciono circa 200 opere), Hirst è alla ricerca di nuovi compratori.

Robert Hughes, dalle colonne di «The Guardian», scaglia una delle sue più classiche invettive: «Se qualcosa di speciale c’è in questo evento, è l’estrema sproporzione tra i prezzi che ci si attende da Hirst e il suo reale talento. Hirst, fondamentalmente, è un pirata, e la sua abilità si rivela nel modo in cui è riuscito a trarre in inganno un numero così grande di persone del mondo dell’arte, da funzionari di museo come Nicholas Serota della Tate ai miliardari del mercato immobiliare newyorkese, nel dare reputazione alla propria originalità e all’importanza delle proprie “idee”. Questa attitudine alla manipolazione è il suo vero successo come artista».

Ancora oggi si discute se il risultato di quell’asta fu un successo o un boomerang. Il 16 settembre Sotheby’s comunica l’esito: 218 opere vendute su 223, per un incasso totale di 111,5 milioni di sterline (all’epoca 140,5 milioni di euro). L’asta, inoltre, fa registrare il record d’artista per Damien Hirst: 10,3 milioni di sterline (13 milioni in euro) per «The Golden Calf», il vitello sotto formaldeide che campeggiava nei comunicati stampa preasta.

Al di là delle cifre, Hirst raggiunge l’obiettivo: il 35% dei compratori è composto da nomi nuovi per il settore dell’arte contemporanea. In ogni caso, il 74% dei lotti battuti supera le stime massime, e la media dei prezzi di aggiudicazione per questi 54 lotti è altissima: 1,3 milioni di sterline. Il giorno prima la bancarotta della Lehman Brothers aveva aperto una crisi finanziaria che contagerà tutto il mondo.

Un naufragio a Venezia
Nella strategia di Hirst anche un’asta che ha avuto un’inusitata eco mediatica è una forma d’arte. Inoltre era riuscito a dimostrare che il brand può fare a meno di alcuni coefficienti tradizionalmente associati al valore di un’opera, vale a dire la datazione e l’unicità. Quel colpo, che sbanca il mercato dell’arte, avrebbe avuto, secondo alcuni osservatori, una lunga, paziente e altrettanto spettacolare preparazione. Un anno prima, nel 2007, Hirst crea uno strepitoso ballon d’essai, «For the Love of God», un teschio del XVIII secolo incrostato di diamanti per un valore (dichiarato dall’artista) di circa 16 milioni di dollari.

Poco dopo, mentre la ghignante creatura fa il giro del mondo, ne dichiarò la vendita per 100 milioni di dollari a un gruppo di investitori. Recentemente, però, ha ammesso che l’affare non venne mai concluso e che l’opera è tuttora conservata in un caveau di Londra. Un flop? Macché. La fake news della vendita, smascherata da Cristina Ruiz, all’epoca direttrice di «The Art Newspaper», fece da volano al mercato del 2007 di Hirst, che secondo Artnet fece registrare un totale di 86,3 milioni di dollari all’asta.

E l’anno dopo è, appunto, quello della maxivendita da Sotheby’s, in cui Hirst passò pesantemente all’incasso dopo vent’anni di dorata carriera. Il tutto, sia chiaro, nel totale rispetto di chi identificò in quel teschio una raffinata operazione concettuale sul rapporto tra valore e prezzo, collocando quella Vanitas nella temperie neobarocca che, tra malinconia ed eccessi, caratterizzerebbe la nostra epoca.

Con un’altra fake news eccolo rispuntare nel 2017, quando svela in una doppia mostra il carico recuperato nelle profondità marine dove sarebbe naufragata duemila anni prima la nave «Incredibile», che trasportava l’imponente collezione appartenuta al liberto Aulus Calidius Amotan, conosciuto come Cif Amotan II, destinata a un leggendario tempio dedicato al dio Sole in Oriente. Oltre 200 «reperti», incluse statue colossali di ibride divinità, vengono esposti nelle due sedi della collezione Pinault a Venezia, Palazzo Grassi e Punta della Dogana.

È il trionfo del simulacro, della copia di ciò che non è mai esistito, di un’archeologia apocrifa da cui sgorgano un demone di William Blake e un Mickey Mouse incrostato di cozze e coralli. Roba che piace a tutti, a grandi e piccini, altro che la pallosa arte esposta nello stesso periodo ai Giardini e all’Arsenale, dov’è in corso la Biennale. Roba per gli spettatori di «Voyager. Ai confini della conoscenza», dove vero e presunto, storia e leggenda metropolitana vengono mescolati all’incrocio tra divulgazione e pseudoscienza.

Hirst investe intorno ai 57 milioni di euro per la costosissima produzione. Non sapremo mai se è vero che, dopo avere infranto un altro tabù dichiarando che anche in una mostra museale tutto è in vendita, l’artista ha incassato da quella mostra circa 300 milioni di euro. Ma male non dev’essere andata.

Se dal 2006 siamo tutti più tranquilli circa il suo stato di salute, visto che da quell’anno ha smesso (forse) di bere e di assumere droghe, ci si chiede come gli stiano andando veramente le cose, se il suo mercato sia in declino o se invece l’artista sia riuscito nel suo intento, cioè essere l’unico padrone del suo brand.

Felix Salmon, giornalista finanziario, opta per la seconda ipotesi: «Valutare le fortune di Hirst esaminando il mercato delle aste aveva senso solo fino al 15 settembre 2008. Successivamente, iniziò a vendere direttamente ai collezionisti, su larga scala, e smise di giocare secondo le regole stabilite del sistema delle gallerie. Libero dai vincoli della galleria, Hirst poteva realizzare l’opera che voleva realizzare e venderla a qualsiasi prezzo i suoi collezionisti fossero disposti a pagare. È qualcosa che quasi nessun artista di galleria può fare. Con l’asta del 2008, si è spostato dal mondo delle commodities, che vengono acquistate e vendute speculativamente a scopo di lucro, nel mondo dei beni di lusso, che vengono acquistati per essere consumati e goduti. Che è esattamente ciò che dovrebbe essere l’arte!».

La Trimurti
Salmon scriveva queste cose nel 2017. Da allora sono accaduti alcuni fatti capaci di mutare ancora una volta i meccanismi del sistema dell’arte: la Brexit, una pandemia e una guerra che sta portando il mondo intero alla recessione. E Hirst che fa? Anzitutto lo scorso anno ci ha propinato alla Galleria Borghese una versione ridotta della mostra del 2017. La location gli ha offerto l’occasione per arricchire l’elenco degli artisti di cui si considera debitore: una lista vastissima, che va da Naum Gabo a, ovviamente, Bacon (Lucian Freud no, «è una merda»), da Peter Blake a Kounellis, da Rembrandt a Goya, de Kooning, Pollock, Picasso, Soutine, Bonnard, Barnett Newman, Van Gogh (a parte quella faccenda dell’orecchio tagliato) ecc., a cui ora si sono aggiunti Bernini e Tiziano che lui preferisce a Caravaggio.

Ma non si è ancora capito se sia davvero un artista affetto dalla sindrome di Telemaco o stia recitando la parte dell’artista colto. Dopo aver collaborato alla creazione di Dismaland, il parco distopico delle meraviglie ideato nel 2015 da Banksy, dopo aver spedito uno «Spot Painting» su Marte, ora flirta con gli Nft e continua a mandare avanti la sua casa di produzione, la Science ltd, da cui nel 2018 ha licenziato 50 dipendenti perché son tempi duri per tutti.

I miracoli, del resto, non può farli neanche uno dei componenti di quella Trimurti i cui membri sono la prova che l’arte contemporanea, almeno sino ad oggi, ha un unico padre e due gemelli: il primo è Andy Warhol, l’artista più quotato di tutti i tempi (con un record di 195 milioni di dollari); gli altri due sono Jeff Koons, il più quotato artista vivente (91,1 milioni di dollari), e Damien Hirst, che, sebbene il suo record d’asta sia «solo» di 19,2 milioni di dollari per «Lullaby Spring», una vetrina con pillole medicinali, dei viventi è il più ricco, se è vero che il suo patrimonio personale è di un miliardo di dollari.

Ora sta dipingendo fiori di ciliegio e sembra molto convinto di questa svolta intimista e neo-post-impressionista. O forse vuole solo dimostrarci che anche la pittura, oggi, è una fake news: per chi la racconta, crederci, è importante quanto raccontarla bene. Hirst, alla fin fine, sa benissimo di vivere e lavorare per un mondo dell’arte in cui è quanto mai attuale un dialogo come quello tra due protagonisti di un romanzo di Alexander Lernet-Holenia: «“Se non avessi detto tu stesso che soltanto le storie irreali meritano di essere raccontate, penserei che la tua storia sia vera”. L’altro scrollò le spalle e sorrise. “Mai privare qualcuno di un’illusione, disse. Men che meno svelandogli che è una verità”».

Tutti i «Primattori» di Franco Fanelli
 

La copertina di «Time» del 15 settembre 2008

«The Golden Calf» ha registrato il record d’artista di Hirst da Sotheby’s nel 2008: 13 milioni di euro

Franco Fanelli, 22 agosto 2022 | © Riproduzione riservata

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Artista, bibliotecario, insegnante privato di francese, organizzatore e geniale allestitore di mostre: il suo celebre orinatoio capovolto è stato considerato l’opera più influente del XX secolo. Usava lo sberleffo contro la seriosità delle avanguardie storiche, e intanto continuava a scandagliare temi come il corpo, l’erotismo e il ruolo dello spettatore

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