Alessandro Morandotti
Leggi i suoi articoliFirenze si adopera ed espone in occasioni effimere (da maggio a buona parte dell’estate) opere d’arte dal forte impatto iconografico, di cui è difficile immaginare la pertinenza nel nuovo temporaneo contesto. Antonio Canova e Pellizza da Volpedo sono stati chiamati a testimoniare, con sicuri capolavori molto distanti tra loro per scelte di stile, l’impegno della città per la pace e la giustizia sociale.
Il sindaco Dario Nardella li presenta come trofei in Palazzo Vecchio, sede del governo cittadino, ma l’azione appare pretenziosa, nonostante le buone intenzioni. Non è quello il luogo più adatto per cogliere il messaggio di speranza che porta con sé «La Pace», gesso di Canova proveniente dal Museo di Possagno, modello per la celebre opera che il grande scultore veneto scolpì in marmo nel 1815, gioiello del Museo di Kiev, della cui storia e del cui valore emblematico specie in questi mesi di guerra hanno scritto tra gli altri Marco Riccòmini, sulle pagine di «Il Giornale dell’Arte», e Massimo Romeri sulle pagine di «Alias».
Quella vicenda artistica si lega a una commissione di un uomo della diplomazia russa con incarichi militari, Nikolaj Petrovich Rumjancev (1754-1826), capace di porre fine alla guerra con la Svezia firmando la pace con quel Paese nel 1809, e sarebbe stato per questo significativo esporre piuttosto a Mosca o a San Pietroburgo l’esemplare di Possagno per ricordare, a chi conosce bene il contesto in cui è nato il marmo di Kiev, quanto sia importante avviare delle trattative per la fine auspicabile della fratricida guerra russo-ucraina.
E, ancora, sarebbe stato forse più credibile che si fosse fatto promotore di questa iniziativa un’alta autorità che alla pace crede davvero, come papa Francesco, che avrebbe potuto idealmente volare in Russia, per incontrare Putin (come auspica da tempo), con quel candido gesso al fianco, perfetto pendant della sua figura immacolata. Rimane così la sensazione che l’ostensione temporanea dell’opera canoviana a Firenze sia più che altro una trovata comunicativa.
Qualcosa del genere è avvenuto anche per il pressoché contemporaneo invio da Milano a Palazzo Vecchio della grande tela «Il Quarto Stato» (1898-1902) di Pellizza da Volpedo, immaginato come scenografia di un dibattito sui temi del lavoro e del precariato previsto a Firenze nei giorni precedenti la festa del primo maggio, a cui hanno partecipato i sindaci delle due città e il ministro del lavoro Andrea Orlando. E quel manifesto del socialismo veniva però annacquato dal tiepido riformismo in campo sociale del governo attuale, risultando a ben vedere fuori contesto (di questa trasferta anomala ha parlato Leonardo Bison in un articolo per «Il Fatto quotidiano» del 29 aprile).
Sono stato testimone come spettatore di un altro viaggio avventuroso del grande quadro, ma tanto più significativo e toccante. Nel 2008, Aurora Scotti, una grande interprete dell’arte del pittore, aveva avuto l’idea di esporlo nello studio di Pellizza a Volpedo, un piccolo gioiello della museografia degli ultimi decenni, nel luogo in cui il pittore è nato e ha trovato tanti temi di ispirazione, tra paesaggi collinari e volti dignitosi dei ceti umili. Illuminato dalla luce zenitale dell’atelier, tra gessi, ricordi figurativi dei familiari e disegni in funzione dell’esecuzione dell’opera finita, «Il Quarto Stato» tornava temporaneamente a casa per uno spettacolo indimenticabile.
Speriamo almeno che questa nuova, pretestuosa, iniziativa espositiva serva a riflettere sulla sistemazione futura del dipinto che non rientrerà al Museo del Novecento ma troverà spazio in una delle sale della Gam di Milano: con l’auspicio che la nuova collocazione renda giustizia alla profondità prospettica e alla forza della scena corale negate nell’ultimo infelice allestimento.
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