Milovan Farronato
Leggi i suoi articoliInutile indugiare troppo a lungo sulla difficolta di incontrare nuove ricerche quando gli studi sono attivi e gli artisti producono come elfi, ma i loro spazi di lavoro e di vita sono inacesssibili. In ogni caso, in questi ultimi mesi, guidato da una frequente compagna di viaggio, la curatrice Stella Bottai, (con cui ho condiviso non solo la curatela del Padiglione Italia 2019, ma anche dell’edizione più frizzante del festival Volcano Extravaganza nel 2015) mi sono cimentato in variegate ed eterogenee studio visit virtuali e imbattuto in altrettante stimolanti scoperte delle quali intendo ora segnalare, senza riserve, quelle di Francis Offman e di Binta Diaw.
Il primo nato a Butare in Ruanda nel 1987, risiede a Bologna, mentre la seconda di origini senegalesi è nata nel 1995 in Italia e risiede attualmente a Milano. Origini distanti per entrambi e lavori che certamente riflettano anche una diversa bloodline. Fenomeni sociali e migrazioni. Inadeguatezza e adattamento. Naufragio e poesia. Circospezione e rischio. Un linguaggio decisamente pittorico per il primo caratterizzato da una pittura senza confini e con altri mezzi. Colori vividi, brillanti a campiture nette con inserzioni, violente, a collage. Assenza di cornici e immersione nell’immagine astratta che solo in alcuni casi richiama, o rimanda, a figurazioni semplici, ma mai semplicistiche. L’opera incorpora strofinacci, vecchie lenzuola, lacerti delle sue origini e nuovi pigmenti realizzati con materiali organici. Di recente Offman è stato incluso nell’algida selezione di preziose collaborazioni extra moenia della Maison Valentino per la loro ultima sfilata haute couture realizzata nelle Tese delle Vergini della Biennale di Venezia. I dipinti, e la loro storia eteroclita, si sono adagiati convincenti sul vestiario.
Diaw invece preferisce l’installazione di varie dimensioni e la possibilità che la medesima si declini in fotografia o presenze scultoree dotate di molteplici livelli di lettura. Non disdegna l’impegno in senso lato, ma anche rivolto in presenze en plain air, pubbliche. Insegue simbologie che si manifestano in molti luoghi e in differenti epoche. È scrupolosa nell’indagine e nell’atavica ricerca intorno alle nozioni identitarie e a quella in particolare del corpo femminile. Paesaggi corporali, o spaziali, su cui vengono tatuati motivi e simboli carichi di una sensibilità sovversiva. Possiede una metodologia basata sulla sua personale esperienza sempre messa in discussione e/o sottoposta a scrupolosa indagine. Nulla è dato per certo, ma solo sottoposto a un progetto in crescita simbiotica.
Il terzo artista di questa trilogia in epoca di pandemia arriva invece dal passato , un passato non così lontano. Una delle prime mostre collettive che ho presentato presso l’organizzazione nonprofit di Milano Viafarini si intitolava «Thin Line» e tra gli artisti compariva anche Sergio Breviario (Bergamo, 1974) Seguì una criptica personale movimentata da motivi e proporzioni da allora sempre ricorrenti. Un rapporto immutabile, ma movimentato nel tempo da puntellanti variazioni. La magia del grigio. Di recente per la sua personale presso la Casa degli artisti di Milano mi sono di nuovo imbattuto nel suo lavoro. Intramontabile, certosino. Crescita costante ma non necessariamente esponenziale. Pourquoi-pas? Un percorso nel grigio che resiste e che non si ferma. Instacabile, articolato... incessante. Lui il vero elfo armato di una gamma specifica di grafite e punta d’argento.
Milovan Farronato è Direttore e Curatore del Fiorucci Art Trust