Simona Sajeva
Leggi i suoi articoliDa qualche tempo assistiamo al susseguirsi di iniziative divulgative sul restauro e sulla professione di restauratore, a vari livelli e con molti meriti. Non ultimo, quello di far emergere anche una rappresentazione stereotipata per genere. Per capirci meglio, ecco alcuni titoli: «Quando il restauro è donna. Le guardiane della bellezza un passo “accanto” all’arte» («Corriere della Sera», 25 aprile 2022), «La donna che salva l’arte dalle macerie» («Corriere della Sera», 4ottobre 2018) o «In buone mani» (podcast in 8 puntate dedicate a professioniste della conservazione del patrimonio artistico, realizzato per la Direzione Musei del MIC).
Nonostante se ne intuiscano le buone intenzioni, è la strada giusta? Non mi si fraintenda, queste iniziative danno voce a professioniste altamente qualificate, più che titolate a rappresentare la categoria. Il punto è un altro: la scelta sia delle parole che dell’immaginario. Che le professioniste chiamate a parlare di restauro e della professione siano sempre più donne può trovare una motivazione di natura statistica: oggi la categoria risulta composta più da donne (70-80% a seconda delle fonti) che da uomini. Che però se ne parli ripetutamente con una terminologia che rimanda a «cura e estetica», come prerogative quasi genetiche delle donne forse merita una riflessione in più.
Sembra quasi che si confonda il dato oggettivo (maggioranza di donne) con l’interpretazione che le donne siano «naturalmente» portate per il restauro («Restauratore: un mestiere che guarda al futuro», Donna Moderna, 20 luglio 2023). Si assiste quindi a un’identificazione delle abilità richieste dalla professione con presunte caratteristiche di genere. Ovvero, dicendo in modo sia sottinteso, che a volte esplicito, che pazienza, precisione, sensibilità ecc. sarebbero prerogative femminili. Da anni oramai sociologi e scienziati hanno fatto emergere una dinamica diversa, ovvero come molte delle caratteristiche ritenute di genere, attribuite a genetica e biologia, sono in realtà indotte dall’ambiente in cui ci si sviluppa e al suo ordine sociale.
Questo stato di cose rinforza gli stereotipi di genere confermando un’idea romantica delle donne e, al contempo, priva gli uomini dell’autorizzazione a esprimere caratteristiche ritenute non virili, perpetuando una profezia che si autoavvera. Si tratta di invisibili gabbie di allevamento, dove cresciamo tutti uguali, nuocendo a noi stessi, ma soprattutto al restauro e al beneficio intrinseco nella pluralità di voci che può venire più dal contributo unico di ogni individuo, che dal suo genere.
Allora, bisogna invertire la tendenza e dare più visibilità agli uomini? Magari fosse così facile e comunque non è questo il punto. Anzi, farlo vorrebbe dire riprodurre la situazione, ma specularmente. Purtroppo, il restauro oggi replica i medesimi meccanismi della società in cui viene esercitato. Un patriarcato condiviso, dalla forma pacata e condiscendente, dove si assiste a un’altrettanto pacata accettazione passiva di precisi ruoli per genere, ruoli dai quali scostarsi ha un prezzo altissimo. Invece, proprio per la sua natura multidisciplinare, il restauro potrebbe essere un terreno ottimale di incontro e sperimentazione dove liberarsi di cliché. Non nel trovare la perfetta formula alchemica di proporzione fra i generi, ma per far emergere e collaborare le individualità.
Dal dibattito che queste iniziative provocano sui social network, è chiaro che tale rappresentazione è generalmente apprezzata, lasciando prevalere l’occasione di visibilità offerta al restauro sul resto. Da qualche tempo però emergono anche critiche interessanti, anche da parte di restauratori. Uomini. Non le solite («uomini vs donne» o viceversa), ma piuttosto centrate sul restauro, sul beneficio della pluralità di genere (non stereotipato) e la neutralità delle caratteristiche richieste da questo mestiere (per altro diversificabili per settore di specializzazione). Così ne ho parlato con due di loro, con profili diversi per generazione, nazione e formazione, entrambi operano in ambito architettonico e non si conoscono: un senior, Marc Philippe (Mp), francese che opera su territorio francese, formato alla scuola di Avignone ed un junior, italiano che pratica in Italia, formato presso una Saf (Scuola di Alta Formazione e Studio), del quale, per rispettarne la scelta, ometterò il nome. Semplicemente un restauratore uomo (Ru). Lungi dal formulare verità assolute, la conversazione ha fatto emergere spunti e ipotesi interessanti.
Mp guarda alle imminenti lauree di quest’anno, tutte donne, e ricorda che negli anni della sua formazione (classe 1987) non si notava un disequilibrio, anzi. Il cambiamento è avvenuto nel corso degli ultimi 20-25 anni. Secondo Mp il fattore economico non è da escludere. Infatti, un mestiere che si esercita quasi esclusivamente da liberi professionisti o piccole imprese e che non assicura guadagni proporzionali all’impegno richiesto, è un fattore che nel tempo può allontanare gli uomini. Il fatto che per anni l’arte sia stata comunicata in modo diverso dalla stampa di genere (molto presente nella stampa detta femminile, non altrettanto in quella maschile) può aver contribuito pure.
Ru invece osserva questo stato di cose sin dalla formazione (meno del 20% della classe era di sesso maschile). Per lui le risposte andrebbero cercate proprio nel restauro come disciplina, a come è cambiato negli ultimi decenni. Sebbene sia diventato sempre più scientifico e la formazione normata, è un mestiere che ha a che fare con l’arte, che nella percezione generale evoca qualità come: creatività, sensibilità e abilità artistiche. Se a ciò si associa che queste sono qualità comunemente più incoraggiate nelle donne e meno negli uomini, molto si spiega. Nella sua riflessione, Ru non dimentica il ruolo che può aver giocato il lungo iter per l’ottenimento della qualifica, che ha tenuto sospesi moltissimi professionisti per anni (facendomi pensare che, stando ai ruoli tradizionali nelle famiglie, gli uomini tendono ad allontanarsi da mestieri ritenuti instabili).
Dai loro settori e dai 30 anni che li separano, Mp e Ru osservano le conseguenze sul lavoro. Mp mette l’accento sul rischio di infantilizzazione delle donne, mentre Ru riporta che è da anni che oramai non esegue un ritocco e che sempre più si vede relegato, insieme agli altri colleghi, ad operazioni considerate più «virili», come movimentazione di materiale in cantiere e consolidamenti. Facce della stessa medaglia.
Quindi, se per un attimo si mettono da parte gli stereotipi di genere e la loro perpetuazione, altro emerge. L’aspetto economico, la precarietà del mestiere, un ambiente ed una comunicazione stereotipati sembrano essere piste più congrue per capire come mai le donne sono diventate una maggioranza nel restauro, piuttosto che presunti talenti di genere. Forse il restauro ha bisogno di un’indagine sociologica strutturata che, basata su dati oggettivi, attingendo agli studi in corso (ad es. «Diventare restauratrici all’Istituto Centrale del Restauro: le prime donne della “critica in atto” (1039-1970)», Il Capitale Culturale, 2022) ed estendendoli, scavi nelle dinamiche che hanno portato a questo stato di cose, aiutando a prevenire in futuro la confusione tra effetti e cause.
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