Nel bene e nel male vengo talora indicato quale responsabile di questa vicenda che trae origine da una mia sommessa proposta, scritta nel lontano 2014 a cui ha fatto seguito la pubblicazione del bando (scaduto l’1 febbraio scorso) per la restituzione dell’arena del Colosseo, unico dei grandi anfiteatri del mondo antico a esserne stato privato dopo gli sterri archeologici dell’ultimo secolo. Ma i meriti vanno certamente altrove: all’intuito di Giuliano Volpe, che suggerì la lettura del mio testo al ministro Dario Franceschini, e ovviamente a lui, che alle parole di apprezzamento fece seguire (non accade sempre in politica!) le fonti di finanziamento necessarie al progetto.
E poi al Parco Archeologico del Colosseo, nato da una delle più discusse riforme del ministro, che danno ormai i primi frutti evidenti: alla sua direttrice, agli archeologi, agli architetti, al personale tutto, che fattivamente hanno creato le premesse per questo passo decisivo, dopo anni dedicati a indagini molto approfondite volte alla conoscenza analitica del monumento. La mia soddisfazione nasce dalla concreta manifestazione del fatto che certe cose in Italia dunque si possono fare; che la Pubblica Amministrazione può essere messa in grado di funzionare; che, se l’idea è buona, le si possono anche dare delle buone gambe. Il bando, nella sua mole corposa, individua e indica le difficoltà tecniche dell’impresa e il loro superamento.
La progettazione, che ovviamente non potrà alterare le strutture emergenti adeguandosi ai principi fondamentali del restauro, dovrà offrire soluzioni adatte a garantire sia la percezione dell’antico livello di calpestio, che ospitava i giochi, sia la visione del complesso labirinto di strutture e meccanismi sottostanti. Dovrà proporre il riallestimento di un piano unitario ad alto contenuto tecnologico con alternanza di settori fissi e mobili in grado di essere facilmente manovrati; e dovrà essere studiato in modo da proteggere le strutture dalle precipitazioni atmosferiche come da un’eccessiva insolazione, garantendo il delicato microclima nella zona ipogea. C’è quindi ampio campo di intervento per il meglio delle professionalità che vorranno cimentarsi. Aspettiamo fiduciosi l’esito della selezione e l’avvio dei lavori, previsto entro la fine dell’anno.
Non mi stupisco che l’enfasi dei media abbia posto anche stavolta l’accento, come sei anni fa, sulla domanda: «E dopo che ci faranno?». Dando per scontata questa legittima curiosità, e tenendo in non cale gli sguaiati benaltrismi puntualmente riproposti, per me la risposta è semplice: quello che il gestore del monumento (cioè il Mibact attraverso il Parco del Colosseo) riterrà opportuno di programmare, mettendoci la faccia e assumendosene le responsabilità davanti alla pubblica opinione. E ben vengano eventi di varia natura, culturali e sociali, comprese eventuali rievocazioni ben fatte degli antichi «ludi» gladiatorii. Perché quello che è lecito su altri palcoscenici non dovrebbe esserlo anche nel più celebre edificio di spettacolo dell’antichità?
A me compete semmai ricordare che i motivi della mia antica proposta non partivano da quella domanda, ma da due pressanti esigenze: che venisse preservata la tutela dei sotterranei, imprudentemente esposti da decenni alle intemperie, e venisse restituita, con il pavimento, la compiutezza della forma architettonica a un monumento celeberrimo, che ne era stato privato nel suo ultimo secolo di vita per improvvide attività di sterro (non scavo) archeologico. Una casa senza pavimento e senza tetto può esistere ed essere anche bella, come cantava Sergio Endrigo, «in via dei matti numero zero». E infatti il Colosseo è bellissimo. È «kalòs»; ma io vorrei che fosse «kalòs kai agathòs», come direbbero gli antichi Greci, per i quali la bellezza formale era assicurata dalla simmetria delle parti, dall’armonia etica della decenza e dell’utilità, cioè della complementarità tra bello e buono. Una casa senza pavimento può essere bella, ma non può essere buona. Tanto più quando quel pavimento glielo abbiamo tolto noi.
Restaurare un pavimento non implica, né tanto meno esclude, un uso sociale del Colosseo, che lo restituisca non solo al turismo globalizzato e a quello di prossimità, ma finalmente anche ai cittadini romani e ai tanti che hanno perso l’intimità con questa icona del patrimonio archeologico mondiale, che la storia pregressa aveva garantito, come luogo di una devota religiosità nel ’700, del turismo europeo nell’800, delle manifestazioni di massa nella prima metà del ’900, fino allo stralunamento di questi ultimi decenni di sviluppo parossistico del turismo di massa. Il Colosseo potrà tornare a essere non solo «guardato» come un quadro, ma «usato», come uno spazio urbano: non solo «attrattore» ma finalmente «attivatore» di cultura.
Benvenuti dunque gli eventi contemporanei, che pur dovranno trovare un limite nella tutela fisica del monumento e nella compatibilità economica della sua gestione. Ma c’è un piccolo «ma»: vi prego, non chiamiamola arena la nuova pavimentazione tecnologica, ma piazza, «la piazza comune», come la definivano i documenti medievali del tempo in cui il Colosseo brulicava di vita. Nella platea communis che ignorava i giochi degli antichi come le processioni dei moderni, quella gigantesca mole, già in rovina, fra botteghe, stalle, laboratori e modeste abitazioni, ospitava come un rione della città le più varie attività, prima che il terremoto del 1349 e le vicende della storia aprissero un’ulteriore nuova fase di vita per un monumento che ne ha già vissute tante: quante ne ha permesse la sua lunga esistenza, che tra un pugno di decenni festeggerà il bimillenario.
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