Nicolas Ballario
Leggi i suoi articoliIl Pratone, pezzo cult del design Made in Italy, compie 50 anni e la cosa incredibile è che probabilmente non ne basteranno altri 50 per capire che cos’è. Questa è la forza di Gufram, quella di camminare sul filo da funambolo teso tra arte e design, senza complessi o bisogno di spiegarsi troppo. È il punto di vista di chi guarda a determinare il posizionamento di questi oggetti cult e le ipotesi di ognuno di noi sono sempre giuste e sempre sbagliate. È tutto ammissibile e nulla è plausibile quando si parla di questo marchio, che ha un significato, nessun significato e centomila significati. Abbiamo incontrato il suo Global Creative Orchestrator Charley Vezza.
Che cosa significa Global Creative Orchestrator? Ceo o Direttore creativo non andavano bene?
Non me le sento addosso, quindi mi sono cucito su misura un ruolo che fosse più fedele a quello che facevo. Global Creative Orchestrator l’ho scelto casualmente, mi è saltato fuori da un «Random Job Title Generator» e da lì è partito tutto. Alla fine quello che faccio non è altro che «orchestrare» il lavoro di più persone.
La sua avventura con Gufram è partita dieci anni fa.
Sì, ma io me ne sento addosso cinque. Nei primi anni ero troppo giovane e possiamo dire che ho imparato, dovevo capire che cosa fosse Gufram, come rinnovarla. È stato inoltre necessario un momento di transizione rispetto all’impronta della precedente gestione.
Ecco parliamo di vecchie gestioni. Anzi, della prima. Qual era il pensiero?
Gufram nasce nel 1966 con l’idea di fare arredamento moderno, il primo direttore artistico è Giuseppe Raimondi e nel ’66 e ’67 si realizzano pezzi in poliuretano utilizzando il tessuto come rivestimento esterno. La grande intuizione però è di Piero Gilardi che inventa il «Guflac», una vernice a base di lattice che può essere applicata sopra il poliuretano. Il «Guflac» resiste su questo materiale, perché la sua flessibilità permette di modificarsi come una pelle, senza rompersi. Con questa invenzione vengono superate numerose criticità per i pezzi, infatti le cuciture, così come il rivestimento in tessuto, non sono più un problema. Arriva la totale libertà: togliendo il problema del rivestimento, si può realizzare qualsiasi forma.
Quando è stata la prima volta che hai visto qualcosa di Gufram?
È indimenticabile.
Amore a prima vista?
Macché, un incubo a prima vista! Gufram è sempre stata la passione di mia madre Sandra: ne collezionava le icone. Io ero figlio unico e quegli oggetti erano amici immaginari con cui parlavo, compagni di gioco. Però il mio primo vero ricordo di Gufram è la Bocca, che in casa mia era posizionata in fondo alle scale. Avevo paura che cadendo ci sarei finito dentro e mi avrebbe mangiato.
Che cosa è cambiato da quando, dieci anni fa, tu e tua madre avete acquistato il marchio?
Gufram non è mai vissuta con la vendita degli oggetti per cui è conosciuta. L’azienda ha una storia totalmente diversa. Prima significava arredamento per discoteche negli anni Ottanta e poltrone per cinema e teatri negli anni Novanta e Duemila. Le icone invece erano qualcosa a sé, un aspetto caratterizzante del brand. La prima grande svolta è stata quella di vendere esclusivamente gli oggetti che la connotano.
E che cosa rimane, invece?
Spero di essere riuscito a mantenere quell’impostazione eversiva di anti-design e indipendenza che Gufram ha e di averla traghettata nella contemporaneità. Sia nella ricerca, sia nella gestione aziendale.
Crede di averle fatto fare qualche passo verso l’ottica dell’arte?
Probabilmente, ma è anche l’arte che si è aperta un po’. Negli ultimi anni sono cambiate molte cose. Gufram in Italia ha mischiato le carte con grande coraggio e secondo me il nostro segreto è che non vogliamo fare «l’azienda», ma ambiamo alla sovversione. Il mercato dice che se fai un prodotto lo devi esporre al Salone del Mobile, poi arrivano gli agenti, lo vedono e lo vendi. Noi questo meccanismo lo abbiamo inceppato, facendo sempre il contrario di quello che fanno le aziende di arredamento.
È vero che oggi il confine si è fatto più sottile e che la parola d’ordine è la contaminazione, ma c’è ancora una separazione abbastanza netta tra mondo dell’arte e mondo del design. In quale dei due ti senti più a tuo agio?
In nessun dei due. A me piace tutto, spazio da un mondo all’altro. Però, sono attratto dalle storie coerenti, che si tratti di un artista, un’azienda o qualsiasi tipo di realtà.
Però con gli artisti ci lavori spesso.
Una delle mie collaborazioni preferite è quella che ha dato vita a Summertime di Valerio Berruti, una panchina straordinaria. Lui ha voluto collaborare solo con noi, rifiutando collaborazioni con molte aziende. Con Maurizio Cattelan invece c’è un rapporto di amore e odio. Tutto è iniziato con la fotografia del nostro Cactus assieme alle uova di Gianni Ruffi, che richiamavano una forma fallica sul numero di «Toiletpaper». Noi li contattiamo, dicendo loro che avremmo voluto incontrarli: speravo di iniziare una collaborazione, ma probabilmente la mail era stata scritta in tono fraintendibile e quando li ho incontrati ho notato subito che erano sulla difensiva. Avevano paura che avremmo fatto causa per non averci chiesto il permesso di usare il Cactus... Infatti credo che Maurizio non mi sopportasse all’inizio, poi pian piano le cose sono andate in un’altra direzione.
Quanti pezzi fate ogni anno?
Gli oggetti sono artigianali, quindi si parla di centinaia e non andremo mai nelle migliaia.
Chi sono i suoi impiegati?
Persone che sanno fare, con esperienza. Artigiani, verniciatori.
E per questo periodo? Che cosa hai in cantiere?
Siamo negli anni della celebrazione, nel 2020 abbiamo fatto cinquant’anni della Bocca, quest’anno cinquanta del Pratone e il prossimo anno del Cactus. Quindi ho frenato lo sviluppo di alcune cose, perché se uno ci pensa cinquant’anni sono tanti e vanno omaggiati come meritano.
Cinquant’anni portati benissimo.
Passa il tempo, ma continuano a essere pezzi contemporanei. In alcuni nuovi mercati spesso non hanno la percezione che questi oggetti abbiano un percorso così lungo alle spalle. Credo sia la peculiarità delle icone.
Icone Pop?
Non so quante volte ho letto la definizione di questa parola, cercando di decifrarla. Nel visivo per me è quello che ti entra nell’occhio. In questo senso io personalmente non credo di essere pop, mentre la mia azienda lo è.
Qual è il Paese più Pop del momento?
Sicuramente la Cina.
Torniamo all’iconicità: Gufram è nei musei.
Per me questo è molto importante. La musealizzazione è un elemento in più, una prova del valore che quegli oggetti hanno. Non è l’unico indicatore della loro importanza, però dà più forza, anche nel momento della vendita. Il Pratone lo abbiamo esposto, in versione gigante e gonfiabile, in piazza San Fedele a Milano durante la design week. L’operazione non sarebbe stata così forte se il Pratone non fosse già stato esposto in vari musei: nessuno ha pensato che fosse un’operazione commerciale e tutti hanno capito che era un progetto culturale. C’erano le code per poterci entrare e questo mi ha reso felicissimo.
Apriamo la sempreverde sezione rimpianti/rimorsi.
Allora…Ci sono due o tre progetti che non avrei voluto fare e altri che avrei fatto diversamente. Non ti posso dire quali perché dietro c’è il lavoro di altre persone, però la verità è che gli errori commessi sono stati fatti per la voglia di ricerca e di innovazione di Gufram. Dovevamo sperimentare, dovevamo capire i nostri limiti.
Qual è il vostro pezzo più rappresentativo?
Difficile da dire, ogni pezzo ha la sua particolarità. E poi come diceva Pino Daniele «Ogni scarrafone è bell' 'a mamma soja» (detto con accento piemontese).
E il più rappresentativo della sua gestione?
Direi «Broken Mirror» disegnato da Snarkitecture, lo studIo di Alex Mustonen e Daniel Arsham.
E chissà che cosa vi inventerete, che cosa vi riserva il futuro.
Guarda, credo di avere capito che abbiamo un’identità così ben definita che non è possibile allontanarsi dalle aspettative del nostro pubblico. Nel futuro, però, il nostro obiettivo è quello di creare nuove icone e magari sfruttare il nostro know how anche su altri marchi, così da raggiungere sviluppi inaspettati. Ovviamente rimarremo radicali, perché questa è la nostra natura.
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