Autoritratto. © Marc Camille Chaimowicz

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Autoritratto. © Marc Camille Chaimowicz

Chaimowicz: porto in mostra anche mia madre

Nella mostra al centro brussellese Wiels l’artista sfida i confini tra arte, arredamento e design

Per più di mezzo secolo Marc Camille Chaimowicz ha esercitato un’enorme influenza nel dissolvere i confini tra arte e design, così come tra pubblico e privato. Il suo lavoro combina scultura, performance, installazione, architettura, pittura e fotografia con moda, tessuti e interior design. Nato nella Parigi del dopoguerra nel 1947, Chaimowicz si è trasferito a Londra da bambino, ma ha sempre attinto a piene mani dal suo retaggio culturale francese, che si tratti degli interni intimi di Pierre Bonnard ed Édouard Vuillard, del dandismo estenuato di Jean Cocteau o degli scritti di Gustave Flaubert, Jean Genet e Marguerite Duras.

Questa erudizione del decorativo e del domestico ha fatto sì che il suo modesto appartamento nel sud di Londra si trasformasse in una vera e propria opera d’arte, parte della quale è ora esposta in «Nuit Americaine», la sua personale aperta al centro d’arte contemporanea Wiels di Bruxelles fino al 13 agosto. Questa è una delle due mostre attualmente in corso, l’altra è «Zig Zag and Many Ribbons» al Musée d’Art Moderne et Contemporain di Saint-Étienne, la prima mostra istituzionale di Chamowicz nella sua nativa Francia.

Le due mostre ripercorrono la sua carriera in modo diverso. A Saint-Étienne circa 80 sue opere a partire dagli anni Sessanta sono accostate a una trentina di lavori e manufatti della collezione del museo in una serie di ambienti e mise-en-scènes descritte come «drammi discreti». Qual era il suo obiettivo?

Da tempo desideravo fare una mostra in un museo del mio Paese natale. Si svolge in sette sale e ha richiesto molti anni, perché a causa del Covid-19 è stato un lavoro lento. A parte uno o due lavori nuovi, si trattava in gran parte di orchestrare opere preesistenti ed è stato un esercizio accademico molto raffinato. Mi ha anche dato l’opportunità di esporre alcuni lavori della mia defunta madre, e questo mi è piaciuto molto. Quando, prima della pandemia, ho visitato Saint-Étienne e ho scoperto la loro multiforme collezione, ho avuto un’intuizione: visto che mi piace sempre ospitare qualcuno, perché non mia madre?

Che forma assumono le opere di sua madre?

Da giovane mia madre aveva lavorato come apprendista sarta presso la casa di alta moda Paquin. Come esercizio realizzava questi bellissimi cartamodelli: erano una sorta di rito di passaggio. Mi ha commosso il fatto che li abbia dati a me piuttosto che alle mie sorelle: credo che avesse capito che ero appassionato di materiale visivo e anche di tessuti. Li ho avuti per molti anni e ne sono rimasto entusiasta. Sono un incrocio tra Agnes Martin e Louise Bourgeois. Sono favolosi.

La mostra di Wiels è invece composta da tre sole opere: il suo ambiente post pop sparso nello spazio espositivo, «Celebration? Realife» (1972); «The Hayes Court Sitting Room», che occupa il soggiorno dell’appartamento di Camberwell, nel sud di Londra, dove lei ha vissuto e lavorato per più di quarant’anni e la reintegra come installazione artistica; e infine «Dear Zoë...» (2020-23), una suite di 40 collage che utilizza l’eroina di Flaubert, Madame Bovary, come punto di partenza.

Se dovessimo usare le categorie dei generi pittorici, si potrebbe dire che «Celebration» è una sorta di paesaggio, «The Hayes Court Sitting Room» è un interno e i collage sono un ritratto. Per quanto desideriamo mettere in discussione la nostra formazione e l’onnipresente storia dell’arte, credo che si sia inevitabilmente relegati in questo tipo di riferimenti.
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Ma allo stesso tempo lei è stato un pioniere nello sfidare le categorie di arte, arredamento e design nella sua pratica. Perché è stato così importante?

È nato da un impegno iniziale con la teoria femminista. Poiché era così maschilista e in bianco e nero, l’ideologia di sinistra dominante sembrava alienante quanto ciò che contestava. Il colore era visto come decadente e il piacere come reazionario, e per me questo doveva essere ricalibrato. Così la domesticità è diventata per me una sorta di metafora. Stavo anche mettendo in discussione la funzione stessa della pratica dell’arte visiva e il suo ruolo implicitamente elitario. Negli anni Sessanta la Camberwell School of Arts era gerarchica e le arti applicate erano considerate un tabù. Mi interessava mettere in discussione questa mentalità e così negli anni Ottanta ho iniziato a lavorare come stagista in uno degli ultimi studi tradizionali di design della seta rimasti a Lille. Questo studio ha completamente scardinato il pregiudizio della superiorità della pittura. Al suo posto si faceva un disegno e il team lo testava. Questo mi ha dato la fiducia necessaria per cimentarmi con un’ampia gamma di materiali, con il vantaggio che spesso potevo avvalermi dell’abilità di altri. C’era dialogo e discussione, e questo continua ancora oggi.

Oltre a collaborare con artigiani e a «ospitare» altri artisti, da Alberto Giacometti e Pierre Bonnard a Wolfgang Tillmans, Lucy McKenzie e ora sua madre, spesso dedica intere mostre a figure che lei ammira molto come Jean Cocteau o Jean Genet. Per molti versi la sua è una pratica molto collettiva.

Credo di aver sempre diffidato dell’atelier. Lo sentivo come una specie di trappola. E allo stesso modo evito religiosamente il mio attuale studio a Camberwell. Ci conservo le cose e di tanto in tanto faccio entrare delle persone che mi aiutano a realizzare dei lavori, ma continuo a dare il meglio di me lavorando sul tavolo della cucina.

Lei è nato nella Francia del dopoguerra da padre ebreo polacco e madre francese cattolica, ma quando suo padre ha trovato lavoro in Gran Bretagna si è trasferito da bambino da Parigi in Inghilterra, prima a Stevenage e poi a Ealing, nella zona ovest di Londra. Eppure, sebbene sia cresciuto in Gran Bretagna, il suo retaggio culturale francese ha sempre giocato un ruolo importante nel suo lavoro.

Alla Camberwell School of Arts il valore dominante era un’estetica parrocchiale, figurativa, tipo Euston Road [School]. E, naturalmente, mi sono ribellato a tutto questo. Come forma di ribellione, credo che mi sarei dovuto indirizzare verso certa arte americana, ma la pittura astratta di grande formato mi era del tutto estranea. Questo mi ha spinto a tornare verso una sensibilità europea. Ero attratto da un’ampia gamma di artisti, da Vuillard a Fragonard. Ma prima di tutto e soprattutto dal regista Jean-Luc Godard, così come dalla letteratura e dal pensiero francese, da figure come Marguerite Duras e Simone de Beauvoir. La teoria è arrivata dopo.

È interessante che lei descriva i suoi collage «Dear Zoë...» come un autoritratto, anche se sono ispirati a Emma Bovary, mentre le fotografie e i film precedenti in cui lei appare fisicamente sembrano avere più a che fare con un gioco di ruolo e con l’immagine generalmente associata all’artista romantico e androgino.

Sì, in un modo simile a quello di Bowie mi «nascondo» spesso dietro una sorta di maschera. Quando lavoravo dal vivo, trovavo sempre un modo per evitare qualsiasi confronto diretto, quindi stavo nell’ombra o camminavo. Sono più felice di avere a che fare con i ritratti degli altri che con i miei, e questo è in parte il motivo per cui mi piace tanto lavorare con Emma Bovary.

Lei aveva già illustrato «Madame Bovary» per «Four Corners Books» nel 2014. Questa recente serie di collage, che ha iniziato dopo il primo lockdown, è stata una forma di risposta personale ai sentimenti di intrappolamento e al desiderio di fuga di Emma?

C’è stato quasi inevitabilmente una forma di proiezione e di simbiosi implicita. In quel periodo stavo anche elaborando, modificando e buttando via molte riviste e materiale visivo da Hayes Court, che sono confluiti nei collage di Emma. In questo momento, mentre Emma è in residenza a Bruxelles, sto facendo una pausa. Ma credo che ci sia ancora un po’ di spazio e probabilmente lo riprenderò in seguito. E poi vedremo come andrà a finire.

«Dear Zoë (Emma Bovary collages)» (2021), di Marc Camille Chaimowicz. Cortesia dell’artista e di Cabinetr

Louisa Buck, 08 marzo 2023 | © Riproduzione riservata

Chaimowicz: porto in mostra anche mia madre | Louisa Buck

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