Ben Luke
Leggi i suoi articoliCecilia Vicuña ha vissuto un anno straordinario. L’artista e poetessa cilena ha vinto il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia, ha tenuto una grande mostra al Guggenheim Museum di New York e ha ricevuto la più importante commissione d’arte contemporanea del Regno Unito, per la Turbine Hall della Tate Modern. Qui presenta «Brain Forest Quipu», opera multidisciplinare composta da due grandi sculture sospese accompagnate da elementi sonori e video. Vicuña vede le varie parti come una sorta di quipu, un antico dispositivo di registrazione andino che si serve di uno spago, nel quale si è imbattuta per la prima volta in Cile quando era ragazza. I quipu venivano utilizzati per tenere sotto controllo qualsiasi cosa, dal pagamento delle tasse ai sistemi astronomici. Nella Turbine Hall, Vicuña li usa per mettere a confronto le foreste pluviali e l’immaginazione umana nel contesto dell’emergenza climatica.
È tornata a Londra, dove ha studiato grazie a una borsa di studio del British Council negli anni Settanta. È qui che ha sentito parlare del colpo di stato militare di Pinochet in Cile nel 1973.
È vero, mi rimanevano solo tre mesi di borsa di studio. Sarei dovuta tornare in Cile a dicembre, e il colpo di Stato è avvenuto a settembre. Così la mia vita è precipitata improvvisamente. L’intero universo che conoscevo è crollato. Ho chiesto di rimanere a Londra, ma il governo, conservatore, decise che tutti gli studenti cileni, all’epoca molto pochi, dovevano partire. C’era una meravigliosa organizzazione di avvocati, [il National Council for Civil Liberties], che difendeva gratuitamente persone come me. C’è stato un processo del Ministero degli Interni contro Cecilia, e [il Consiglio] ha dovuto dimostrare che se fossi tornata in Cile, sarei potuta essere uccisa. Hanno usato il libro di poesie che avevo appena pubblicato, Saborami, forse il primo libro uscito dopo il colpo di Stato che parlava del crimine. Non dimenticherò mai l’immagine dei giudici: una fila di uomini in abiti neri e buffe parrucche bianche in testa. Sollevavano il mio libro con una procedura cerimoniale cerimonia prima di conferire tra loro e dire: «asilo concesso».
Nella Turbine Hall si ha a che fare con un diverso tipo di tirannia: il cambiamento climatico. Ci sono questi enormi «quipus tattili» bianchi che pendono dal soffitto. Qual è il loro significato?
Il titolo «Brain Forest Quipu» deriva dal fatto che in occidente c’è una visione riduttiva del cervello, come se fosse una sorta di oggetto fisico che vive in ognuno di noi. Gli antichi hanno creato diversi quipu, tra cui quello tattile. Poi avevano un quipu immaginario, con cui si pensavano connessi a tutte le comunità del loro universo conosciuto. Queste comunità si collegavano alle fonti d’acqua nelle montagne e, a loro volta, quest’acqua era connessa con la sua origine nello spazio intergalattico. Questo è il tipo di quipu a cui mi sono interessata quando ero una ragazzina, come un pensatore immaginario, o pensatore di immagini.
Perché l’ho scoperto? Come l’ho appreso? Dal nulla: è nell’aria, è disponibile per tutte le persone che immaginano. Questo vi dice che c’è un altro tipo di cervello, dove tutte le fantasie si sposano. E credo che sia l’equivalente perfetto della rete vivente, della trama di vite che permette a questo pianeta di esistere: la foresta pluviale. Quindi l’invito della Tate, per me, è un’opportunità per parlare di tutte queste dimensioni del quipu, perché la Turbine Hall richiede una dimensione diversa dell’immaginazione, non solo per la scultura. È uno spazio per immaginare una modalità diversa di essere nel mondo, un diverso tipo di società, diversi modi di connessione.
Lei collabora con una comunità di latinoamericani. Perché ha voluto lavorare con loro?
Ho sempre amato il Tamigi. Ho iniziato a parlare con i curatori qui, dicendo loro che una delle cose che amavo della Tate era la possibilità di essere vicino al fiume, di coinvolgere in qualche modo il fiume nell’installazione. Ho detto che con la bassa marea scendo per toccare il fiume. E loro mi hanno detto: «Oh, conosci il “mudlarking”?» [cercare oggetti nelle rive fangose di un fiume o di un porto, Ndr]. Ho scoperto che un gran numero di persone è pratica questa antica attività e che c’era una particolare comunità di donne latino-americane che sarebbe stata felica di partecipare. Avevo bisogno di un gruppo di persone che fossero felici di riunirsi per me, perché non potevo stare qui per molto tempo. Così questo quipu è stato costruito da molte mani, più di 20, direi.
Si tratta di una struttura imponente fatta di piccoli oggetti. La dimensione è estremamente importante in tutto ciò che fate.
Sì, è vero; è un processo artigianale. Praticamente tutti gli elementi animali e vegetali, in termini di fibre, fili e materiali, sono in pericolo a causa della catastrofe climatica che si sta già verificando. Quindi ogni piccolo ramoscello è prezioso. È impregnato di questo amore e riconoscimento, e di questo bisogno di essere consci che tutto è in pericolo, e quindi anche noi. La nostra mancanza di consapevolezza sta diventando criminale nei confronti di noi stessi. Quindi, come si affronta l’autodistruttività se non attraverso la consapevolezza e la compassione verso la propria violenza? Questo credo sia il senso del quipu: questi materiali sono disposti a essere toccati, e noi vogliamo toccarli perché sono morbidi, sono feriti. È innato in noi il desiderio di accarezzare, di toccare, di stringere.
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