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Il generale Graziani ad Addis Abeba

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Il generale Graziani ad Addis Abeba

Caccia grossa ai trofei «perduti» dell’Italia coloniale

L’eccidio e saccheggio di Debre Libanos in Etiopia fu «il più grave crimine dell’Italia». Oggi con difficoltà si cerca di rimediare all’«amnesia collettiva» che ha cancellato la memoria dell’ordine di sterminio illimitato per il quale il colonialismo italiano si macchiò dell’infamia più vergognosa. Ora si impone la complicatissima ricerca di opere e oggetti razziati o ricevuti in dono, andati dispersi. Dove sono?

Con la seconda guerra mondiale e la fine dell’epoca coloniale, per diversi Paesi europei e per i loro musei si è acceso il tema assai delicato delle «restituzioni» dei beni culturali sottratti alle ex colonie. Da circa vent’anni è aperto un dibattito internazionale che coinvolge Germania, Belgio, Paesi Bassi, Gran Bretagna e altri Paesi e sono già state restituite decine di oggetti, anche se sulle «restituzioni» manca ancora un trattato generale tra le nazioni.  L’Etiopia si era rivolta nell’immediato dopoguerra proprio all’Italia, della quale era stata colonia, e i due Paesi avevano raggiunto nel 1956 un accordo per la restituzione di una serie di oggetti. Ma solo nel 2021 l’allora ministro della Cultura Dario Franceschini ha affrontato il problema e ha istituito, a supporto del Comitato per il Recupero e la Restituzione dei beni culturali interno al Ministero, un Gruppo di Lavoro per lo studio delle tematiche relative alle collezioni coloniali. Del gruppo fanno parte due direttori di musei, Christian Greco del Museo Egizio di Torino e Andrea Viliani del Museo delle Civiltà di Roma, e tre docenti universitari: Ilaria Pavan (Normale di Pisa), Daniele Parbuono (Perugia) e Simona Troilo (L’Aquila). Il gruppo è al lavoro e ha cominciato a identificare e studiare gli oggetti razziati o importati illegalmente, alcuni presenti nelle collezioni pubbliche italiane, per stabilire limiti e regole di eventuali restituzioni. Ogni decisione spetterà poi alla politica attraverso il Ministero della Cultura. Era stata la Francia a dichiarare la necessità di un piano per definire i principi generali per le restituzioni: nel 2017 il presidente francese Emmanuel Macron, in viaggio nel Burkina Faso, presentò le scuse del suo Paese e promise che entro cinque anni avrebbe restituito i reperti sottratti. Istituì una commissione (a cui seguì un dettagliato rapporto, affidato a Bénédicte Savoy e Felwine Sarr; cfr. n. 384, mar. ’18, p. 18 e n. 392, dic. ’18, p. 12) ma nel 2022 vennero restituiti soltanto 26 oggetti razziati nella colonia del Benin. Altri reperti sono stati poi restituiti dai Musei Statali di Berlino e dal Victoria and Albert Museum di Londra, mentre diversi Paesi stanno esaminando questa possibilità.

 

«Autorizzo la politica del terrore e dello sterminio senza limiti»

Dopo un lungo silenzio, da pochi anni anche l’Italia ha cominciato a riconoscere e affrontare le sue pesanti responsabilità per quanto accaduto durante la guerra coloniale in Etiopia, che una grave amnesia collettiva indotta ha fatto fino ad oggi dimenticare. Si tratta dell’orribile eccidio e successivo saccheggio del monastero cristiano copto di Debre Libanos, il più importante centro religioso etiope: è stato il crimine di guerra più grave avvenuto in Africa in quegli anni, compiuto nel 1937 dall’esercito di occupazione fascista. Pochi anche oggi conoscono il gravissimo episodio, eppure quel crimine è ben documentato e restano prove concrete della «politica del terrore» voluta da Mussolini per stroncare ogni resistenza e sottomettere le popolazioni dell’Etiopia. Sono chiare e perentorie le sue ripetute istruzioni, riassunte nel telegramma da lui scritto l’8 luglio 1936 a Rodolfo Graziani, da pochi mesi viceré d’Etiopia: «Autorizzo ancora una volta vostra eccellenza a iniziare e condurre sistematicamente politica del terrore e dello sterminio contro i ribelli e le popolazioni complici. Senza la legge del taglione al decuplo non si sana la piaga in tempo utile». Graziani seguì questa «politica». Il culmine dell’azione criminale è avvenuto nel 1937, quando cioè la guerra di conquista era ufficialmente conclusa, anche se vaste regioni del Paese non erano ancora e non furono mai sotto l’effettivo controllo dell’esercito italiano e in Etiopia continuò sempre una guerriglia diffusa. La «politica del terrore» ordinata da Mussolini diventò per Graziani soprattutto «politica di sterminio» dopo il fallito attentato contro di lui il 19 febbraio del 1937. Avvenne sul piazzale davanti alla sede del Governo italiano nella capitale Addis Abeba, durante un’affollata cerimonia ufficiale, presenti le autorità italiane e locali e circa 3mila abitanti dei quartieri più poveri della città ai quali furono distribuite delle elemosine: Graziani stava per iniziare il suo discorso quando due studenti eritrei, Abraham Debotch e Mogus Asghedom, lanciarono alcune bombe a mano di scarsa potenza. Non è sicuro che vi siano state vittime. Graziani venne ferito da tante piccole schegge insieme ad altri presenti. La rappresaglia fu immediata e senza limiti. Dopo tre giorni, il 22 febbraio, dall’ospedale, Graziani informò Mussolini con un telegramma: «In questi tre giorni ho fatto compiere nella città perquisizioni con ordine di passare per le armi chiunque fosse trovato in possesso di strumenti bellici; che le case relative fossero incendiate. Sono state in conseguenza passate per le armi un migliaio di persone e bruciati quasi altrettanti tucul». La repressione continuò poi in città, mentre i due studenti autori dell’attentato si erano dileguati. Durante la fuga si rifugiarono nel Monastero di Debre Libanos, a circa 100 chilometri da Addis Abeba. In quel luogo sacro, lo stesso giorno di febbraio, li cercarono un gruppo di ufficiali italiani a cavallo, ma i due erano già ripartiti. Da allora l’antico monastero copto di Debre Libanos, centro del Cristianesimo ortodosso etiope, abitato da centinaia di monaci e loro allievi, diventò il bersaglio della vendetta di Graziani. Temendo rappresaglie e rastrellamenti, molti di loro, insieme ad abitanti del posto, cercarono rifugio nei boschi: in quella notte di febbraio circa 50 monaci furono catturati e uccisi sul posto. A Graziani non bastava: considerò tutti i religiosi cristiani del monastero complici o addirittura mandanti dell’attentato contro di lui e decise di sterminarli. Diede quindi ordine al generale Pietro Maletti, comandante militare della regione nord-est dello Scioa, dove si trovava Debre Libanos, di «procedere alla totale liquidazione del monastero entro maggio 1937».

Il Monastero di Debre Libanos, centro del Cristianesimo ortodosso etiope, abitato da centinaia di monaci e loro allievi, è il luogo dell’eccidio del 1937 voluto dal generale Rodolfo Graziani

Strategia di un massacro

Graziani stesso, ancora convalescente ad Addis Abeba, scelse la data per lo sterminio: il 20 maggio, giorno della festa del «12 Ginbot», la più sacra dell’anno per i cristiani del Paese. Si celebrava infatti una cerimonia assai popolare nella quale si commemorava con riti solenni la traslazione del corpo di san Takla Haymanot nella Cattedrale di Debre Libanos a lui dedicata. In quei giorni di maggio stavano arrivando migliaia di cristiani copti da tutto il Paese. Graziani ordinò di aspettare che i pellegrini fossero presenti in massa per dare il via alla strage. Giustificava questa decisione con le informazioni, vaghe e incerte, avute dall’avvocato militare, secondo il quale esisteva un legame tra i monaci e l’attentato. Il 19 maggio trasmise questo ordine scritto al generale Maletti: «Passi per le armi tutti i monaci indistintamente, compreso il vice priore. Prego darmi assicurazione comunicandomi numero di essi». I militari italiani e circa 1.500 ascari somali e libici, tutti musulmani perché li si pensava pronti a uccidere senza rimorsi i cristiani, erano già pronti a Debre Libanos con precise istruzioni: costringere monaci, preti, diaconi e pellegrini a entrare nella Cattedrale per poi sbarrare le porte. Poco lontano era stato anche creato un campo in cui i pellegrini e tutti i nuovi arrivati venivano man mano rinchiusi e censiti. I militari dedicarono il 21 maggio alle fucilazioni. Invalidi e malati furono eliminati per primi. Gli altri, caricati sui camion 30 o 40 alla volta, vennero allineati sull’argine del vicino fiume e uccisi con raffiche di mitraglia. I corpi vennero lasciati alla corrente del fiume. Molti altri furono eliminati nei giorni successivi nei dintorni di Debre Libanos e sepolti in fosse comuni. Tra loro, tutti i monaci insieme a diaconi, giovani studenti e altri pellegrini scelti dai comandanti italiani. Il numero ufficiale delle vittime, secondo i rapporti militari, era stato di 452. Le più recenti ricerche degli storici calcolano un minimo di 1.400-1.600 vittime. Le fonti principali sono in particolare gli studi condotti sul posto, in anni recenti, da due professori inglesi, Richard Pankhurst (autore del saggio The mystery of the Debre Libanos Treasure, pubblicato su «Ethiopian Review» nel marzo 1993) e Ian Campbell (autore di Il massacro di Addis Abeba. Una vergogna italiana, Rizzoli 2018), storico che ha indagato a lungo in Etiopia raccogliendo le testimonianze dei pochi sopravvissuti allo sterminio e oggi è docente universitario ad Addis Abeba. D’accordo altri studiosi, anche italiani, esperti di Etiopia come Giorgio Rochat e Angelo Del Boca: secondo alcuni di loro la cifra più realistica è di circa 2.000 vittime e rappresenta, scrive lo studioso Paolo Borruso nel suo Debre Libanos 1937 (Laterza, 2020), «il più grave crimine di guerra dell’Italia».

Il saccheggio dell’arte

Dopo la strage, case, chiese e l’intero monastero furono incendiati e devastati. Prima, però, i militari e chi li comandava saccheggiarono ogni oggetto di valore e il patrimonio sacro compresi libri e manoscritti antichi. Impossibile sapere con esattezza quali e quanti oggetti siano stati portati via anche se in gran parte sono poi arrivati in Italia per entrare a far parte del Museo Coloniale, creato fin dal 1923 nel Palazzo della Consulta in piazza del Quirinale a Roma, allora sede del Ministero della Colonie e oggi della Corte Costituzionale. Per qualche anno il Museo Coloniale si arricchì di nuovi reperti. Chiuso durante la guerra, fu riaperto nel 1947 per essere chiuso definitivamente nel 1971. Nel museo era la cosiddetta Sala Graziani che conteneva oggetti da lui donati.

Uno dei sommi sacerdoti esce dal portale del cortile della chiesa di pellegrinaggio di Debre Libanos in uno scatto del 1934 di Walter Mittelholzer

Chiusi nei depositi

Per oltre cinquant’anni le casse con i reperti del Museo Coloniale erano rimaste invisibili. Solo dal 2011 al 2016 i circa 12mila oggetti di quel museo sono stati trasferiti nei depositi del Museo delle Civiltà di Roma diretto da Andrea Viliani. Istituito nel 2016, unisce all’Eur le collezioni dei precedenti Museo Nazionale Preistorico Etnografico «Luigi Pigorini», Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni popolari, Museo Nazionale dell’Alto Medioevo e Museo Nazionale d’Arte orientale, oltre ai disciolti Museo Africano e Museo Geologico Nazionale. Ora l’obiettivo è conoscere, studiare, esporre e quindi anche valutare una parziale restituzione alle ex colonie. Solo una piccola parte di questi oggetti è oggi esposta. Da tempo è in corso uno studio assai complesso, anche perché le migliaia di documenti che riguardano quei reperti sono stati divisi tra la Biblioteca Nazionale e l’Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli Esteri. Adesso la ricerca è affidata a una squadra di specialisti, demoantropologi, storici, sociologi, archivisti, che fanno capo al Museo delle Civiltà e in particolare a quella nuova sezione espositiva, definita Museo delle Opacità, dedicata alle collezioni dell’ex Museo Coloniale e curata dalla demoantropologa Rosa Anna Di Lella affiancata da Gaia Delpino e Matteo Lucchetti. Il termine «opacità», spiega Di Lella, si riferisce soprattutto «al velo opaco dell’amnesia caduto sull’epoca coloniale della storia nazionale che ne rende oggi sconosciuti gli avvenimenti, le cifre, i nomi dei protagonisti. Adesso siamo impegnati a riconoscere gli oggetti e a ricostruirne le storie. Soltanto pochi reperti hanno cartellini originali che rivelano la provenienza e il nome di chi li aveva donati. Si tratta quindi di risalire alla loro provenienza per accertare come e quando sono arrivati in Italia: se in modo legale o illegale, se donati o frutto di saccheggio e, ricerca assai ardua, si cerca di identificare chi li ha portati qui dall’Etiopia e da altre colonie. È certo del resto che molti oggetti sono stati dispersi, negli oltre 50 anni di chiusura del Museo Coloniale che ha più volte cambiato nome prima di essere infine chiuso al pubblico». Per questo è in corso anche un censimento per valutare l’eventualità di una futura restituzione di oggetti e altre opere etiopici in diversi musei europei e della stessa Etiopia.

Le quattro corone sparite

«Dai fascicoli ora all’Archivio di Stato, racconta Di Lella, sappiamo che proprio Rodolfo Graziani, viceré d’Etiopia, aveva donato nel 1939 alcuni oggetti importanti esposti nella sala a lui intitolata del Museo Coloniale. Una ricercatrice del Museo delle Civiltà, Silvia Iannelli, li sta cercando soprattutto sulla base di fotografie dell’epoca. Ma soltanto una parte di quei reperti è stata finora riconosciuta nei depositi del Museo dell’Eur. Mancano soprattutto le corone preziose appartenute agli ultimi quattro imperatori d’Etiopia. Erano state portate da Graziani in Italia ed esposte nella sua sala del Museo Coloniale». Una storia diversa ma con altre prove della loro presenza in Italia si trova in una pubblicazione ufficiale del 1939: «Gli Annali dell’Africa italiana» (II volume). Vi si legge che le corone erano state in realtà un dono di Graziani a Mussolini che le aveva affidate al Museo Coloniale per esporle proprio nella Sala Graziani. La loro presenza in Italia è certa: quando, alla fine della guerra, il 27 aprile 1945 Mussolini venne arrestato mentre tentava di fuggire in Svizzera travestito da soldato tedesco, si rividero anche le corone che facevano parte di quello che viene conosciuto come l’«oro di Dongo». Furono trovate, tra altri tesori e molto denaro, nascoste nelle cinque valigie che Mussolini aveva con sé. Tre di quelle corone si riconoscono chiaramente in una fotografia scattata pochi giorni dopo, il 15 maggio del 1945, e pubblicata solo nel 1968 su «Epoca»: mostra due capi della Resistenza, il generale Raffaele Cadorna e Walter Audisio, appoggiati a un tavolo sul quale sono chiaramente riconoscibili tre delle famose corone. Da allora però, se ne sono perse le tracce. È in ogni caso certa la loro provenienza da Debre Libanos: era noto che gli ultimi quattro imperatori etiopici, compreso Hailé Selassié (1892-1975), avevano affidato quei preziosi simboli del potere perché fossero custoditi nel monastero. Il loro furto durante il saccheggio è confermato anche dalle testimonianze dei rari sopravvissuti alla strage del 1937, soprattutto dei soli tre monaci scampati all’eccidio. Gli stessi testimoni hanno tracciato anche un elenco parziale di altri oggetti preziosi trafugati dal monastero: un incensiere e diverse croci d’oro, piatti e vasi, ma anche antichi manoscritti e ornamenti religiosi con finiture d’oro e argento. Quei furti, del resto, erano autorizzati dal via libera concesso da Graziani al suo esercito. Il Paese venne così saccheggiato. Oggi gli oggetti più preziosi sono dispersi. Finiti nelle case di militari e funzionari allora in Etiopia o rubati e spariti durante i decenni di chiusura e abbandono del Museo. Solo una parte dei 12mila oggetti dell’ex Museo Coloniale sono adesso allo studio nel Museo delle Civiltà. Per la ricomposizione del mosaico, che comprende la maggior parte dei reperti dell’ex Museo Coloniale, ci si aspetta molto dai documenti che si trovano dal 2013 nell’archivio del Ministero degli Esteri. Avremo i primi risultati, ancora parziali ma finalmente certi, solo verso la fine del 2024.

L’Opacità silenziatrice: il futuro della memoria

Il tentativo di rinnovare e dare un senso all’esposizione degli oggetti che vengono man mano ritrovati e riconosciuti è un anticipo di futuro, quasi un esperimento. Saranno esposti anche dipinti, documenti e fotografie d’epoca, accostandoli a opere di artisti e personalità dell’Etiopia contemporanea. Ci vorranno alcuni anni per allestire la sezione del Museo delle Civiltà chiamato «Museo delle Opacità». Per ora sono aperte poche sale in attesa di creare un vero nuovo museo per offrire un punto di vista corretto della nostra storia coloniale, per far conoscere i fatti e raccontare in un contesto di verità soprattutto gli anni nei quali Graziani è stato viceré d’Etiopia, quando furono commessi dal nostro esercito i peggiori massacri e il sacrilego saccheggio che ne è seguito. Al Museo delle Civiltà è quindi in corso un lavoro capace di dare un significato nuovo e attuale a quanto verrà esposto. Il direttore del museo, Andrea Viliani, ha dunque avviato quello che definisce «un tentativo di approfondire possibili processi di decolonizzazione del patrimonio coloniale italiano».

Il Museo delle Opacità nel Museo delle Civiltà a Roma: a destra, uno dei due quadri che decoravano il Parlamento di Addis Abeba, trafugati dagli italiani e oggetto del Trattato del 1956 tra Italia ed Etiopia. © Museo delle Civiltà, Roma; foto: Giorgio Benni

Edek Osser, 25 settembre 2024 | © Riproduzione riservata

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