Barbara Antonetto
Leggi i suoi articoliRestano pochi giorni per visitare la mostra più importante di «Timişoara 2023. European Capital of Culture», ma soprattutto la mostra che riconnette con il suo Paese natale, sfatando falsi miti e strumentalizzazioni politiche, Costantin Brâncuşi, il grande scultore che nella prima metà del XX secolo divenne uno dei massimi esponenti dell’Avanguardia parigina per poi trascendere ogni corrente e ogni inquadramento geografico e formale.
«Brâncuşi. Romanian Sources and Universal Perspectives», allestita fino al 28 gennaio nel Museo Nazionale d’Arte di Timişoara, ha «riportato a casa» Brancusi a 50 anni di distanza dalla retrospettiva che si tenne al Museo Nazionale d’Arte di Bucarest attraverso un centinaio di opere (molte delle quali mai esposte in Romania) selezionate con acume e passione da Doïna Lemny e prestate da musei internazionali (Centre Pompidou di Parigi, Tate di Londra, Fondazione Guggenheim di Venezia, Museo Nazionale d’Arte di Bucarest e Museo d’arte di Craiova) e collezioni private. La mostra è il coronamento di una vita di studi dedicati a Brâncuşi da Lemny, ex ricercatrice del Centre Pompidou, cui si deve la pubblicazione dell’Archivio (L’Atelier Brâncuşi, La Collection, Paris 1997, e La Dation Brâncuşi: dessins et archives, Paris 2003), e che sta lavorando per dare alle stampe tutti gli scritti. Da fine marzo «Brâncuşi. Romanian Sources and Universal Perspectives», che al 15 gennaio ha registrato 120mila prenotazioni e quasi 100mila visitatori, avrà una seconda tappa al Centre Pompidou.
Nato il 19 febbraio 1876 nel villaggio rurale di Hobita, a 28 anni lo scultore approdò a Parigi dopo un lungo e avventuroso viaggio (in treno e per lunghi tratti a piedi) e vi rimase fino alla morte, il 16 marzo 1957 (è sepolto nel cimitero di Montparnasse). Cinque anni prima aveva ottenuto la cittadinanza francese e l’anno precedente aveva donato il suo Studio e tutto quello che conteneva allo Stato francese (oggi al Beaubourg). Seppure la sua arte abbia poi trasceso ogni confine per divenire, attraverso un meditato processo di astrazione, l’essenza stessa della purezza di forme e dell’arte universale, Brâncuşi non rinnegò mai le sue origini, fu al contrario orgoglioso delle sue radici e della sua formazione rumene, delle tradizioni e dello straordinario artigianato locale dal quale prese le mosse.
Doïna Lemny ha focalizzato la mostra sul primo periodo dell’artista, quello che reca l’impronta rumena, ma ci ha tenuto a precisare che Brâncuşi tenne costantemente rapporti con la madrepatria, dialogando per tutta la vita con artisti compatrioti, partecipando a vari eventi in Romania e realizzando opere per committenti rumeni. Lemny ha studiato (e pubblicato) tutta la corrispondenza rumena di Brâncuşi per cui conosce abitudini, amori e amicizie di questo scultore che preferiva lavorare da solo (lasciò l’atelier di Rodin dopo quattro mesi perché «nulla cresce all’ombra dei grandi alberi»), ma non era affatto un solitario: «aveva molti amici che invitava a cena servendo loro champagne in tazze di ceramica perché non possedeva coppe da champagne».
Brâncuşi fu affascinato dal mondo dell’infanzia (ma non ebbe figli, o perlomeno non ne riconobbe nessuno), da quello femminile (ma scapolo convinto) e da quello della fotografia, cui si avvicinò dopo aver conosciuto Edward Steichen e Man Ray e che praticò per tutta la vita non accettando che altri fotografassero le sue sculture: in mostra anche gli affascinanti video con i quali documentava il suo processo creativo o studiava il movimento. Amava l’arte africana, ma quando vide che una sua opera assomigliava troppo a una scultura africana, le tagliò via la testa (da «Primo passo» a «Testa di Primo passo»): nessun canone, nessun rimando, solo essenza, pura forma universale libera da ogni influenza e condizionamento.
Tutto ciò emerge dalla mostra attraverso le opere, i disegni, le fotografie e i documenti. Il percorso espositivo parte dalla formazione accademica a Bucarest di cui l’artista andava molto fiero, documentata dal mai esposto «Scorticato» del 1902 proveniente dal Collegio Nazionale Carol I di Craiova, prosegue con il monumente funerario di Petre Stănescu commissionatogli nel 1907 da Eliza Seceleanu che aveva appena sposato il neoeletto deputato del Parlamento rumeno. In mostra sia il busto del giovane sia la statua «Rugăciune» («Preghiera») che definì Brâncuşi uno scultore moderno: una figura femminile orante in ginocchio realizzata con una tecnica appresa nell’atelier di Rodin.
Dopo varie sezioni dedicate alle più celebri serie come quella del Bacio, dei busti di bambini, delle teste di donna che ebbero per musa l’amica Margit Pogány, dei torsi maschili e femminili e del pesce attraverso cui Brâncuşi studiava il movimento, la mostra documenta la serie che prese le mosse dalla raffigurazione di «Măiastra», l’uccello della tradizione popolare rumena protagonista di molte fiabe per bambini in cui si trasforma in principessa. Da una versione all’altra il volatile arrivò a essere stilizzato fino a rappresentare l’essenza stessa del volo, astrazione che fu al centro di una curiosa vicenda giudiziaria: nel 1926 l’amico Duchamp aveva infatti deciso di esporre nella Brummer Gallery di New York «Uccello nello spazio», ma alla dogana pretesero la cifra prevista per l’importazione dei manufatti in metallo rifiutando di applicare l’esenzione fiscale prevista per le opere d’arte.
Brâncuşi pagò, ma avviò un processo che terminerà due anni dopo un lungo dibattito tra chi si rifiutava di riconoscere un uccello in un manufatto privo degli attributi identificativi dei volatili (becco, zampe, ali) e chi difendeva la nuova arte sempre più lontana dal naturalismo. Alla fine lo scultore la spuntò grazie alle dichiarazioni di vari testimoni tra cui il fotografo Edward Steichen: «Come fa a dire che si tratti di un uccello se non gli somiglia?», gli chiese il giudice e Steichen: «Non dico che è un uccello, dico che mi sembra un uccello, così come lo ha stilizzato e chiamato l’artista».
Brâncuşi ebbe sempre uno stretto rapporto con i materiali: con la pietra e con il bronzo, la cui finitura accurata non era decorazione ma rispondeva anch’essa alla ricerca di astrazione, e anche con il legno, per il suo primitivismo e per il suo impiego nelle case tradizionali dei luoghi della sua infanzia (mosse i primi passi da scultore nel villaggio natale intagliando il legno). Oggi la casa di Brâncuşi a Hobita è aperta al pubblico: non è quella in cui realmente è nato, ma una casa originale con decori e arredi dell’epoca che vale la visita. In particolare si notino le colonnine della veranda davanti a casa che fanno pensare a come nelle sue celebri «Colonne» lo scultore abbia sublimato l’architettura tradizionale arricchendola di un nuovo significato universale.
Chi, sollecitato dalla mostra, cercasse le tracce di Brâncuşi in Romania non può prescindere da un «pellegrinaggio» a Târgu Jiu dove si conservano tre opere monumentali (la «Colonna senza fine», la «Tavola del silenzio» e la «Porta del bacio») che affascinano per la loro spiritualità e che documentano l’approdo alla semplificazione della forme e all’astrazione cui Brâncuşi aspirò fin dal suo abbandono della formazione accademica e del naturalismo di Rodin. Delle tre opere sono state fatte svariate interpretazioni religiose, ma il messaggio è lo stesso della celebre serie del «Bacio»: no alla guerra, sì a un mondo senza confini in cui tutti gli elementi convivano in armonia. In uno dei suoi scritti si legge: «La mia patria, la mia famiglia è la terra che ruota, il soffio del vento, le nuvole che passano, il fiume che scorre, il fuoco ardente, l’erba verde, l’erba secca, la polvere, la neve».
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