Carlo Accorsi
Leggi i suoi articoliNicolas Ballario, classe 1984, autore e conduttore di podcast e trasmissioni televisive e radiofoniche, è un divulgatore dell’arte contemporanea aggressivo e inventivo. Atipico nella «setta» spesso troppo seriosa del contemporaneo.
Caro Ballario, com’è cascato nella trappola dell’arte?
Ho sempre avuto la fissazione per la politica e ho cominciato dalla fotografia, che mi sembrava il mezzo migliore per cogliere le sfaccettature della politica. Durante gli studi all’Accademia avevo cominciato a lavorare per Radio Radicale. E lì ho conosciuto Oliviero Toscani.
È stato Toscani il corruttore?
Certamente. Era un idolo per me. Ricorda «C.O.L.O.R.S.» (magazine fondato nel 1991 da Toscani e Tibor Kalman, Ndr)? Non c’era al mondo un giovane creativo come lui.
Che cosa sperava di trovare nell’arte?
Mi verrebbe da dire che ho sperato di trovare nell’arte un lavoro. Sono stato fortunato...
Le piace fare quello che fa?
Tantissimo, e mi piaceva anche quando facevo più fatica. Sono cresciuto con la fissazione per la politica e credo che l’arte sia la cosa più vicina alla politica che esista. Perché l’arte è inutile, non sarebbe arte se avesse qualche utilità. E in questo è molto simile alla politica.
È una tesi insostenibile.
Mi è sempre piaciuto pensare a questo aspetto aulico dell’arte, come qualcosa di per sé inutile che contiene però elementi utili. Come una politica senza i partiti. Non voglio dire che l’arte debba essere per forza politica o che debba per forza significare qualcosa. Anzi, molto spesso è l’esatto contrario. Infatti il mio artista preferito è Mark Rothko.
Rothko non significa nulla?
Mi ha sempre affascinato che sia riuscito a sintetizzare tutto in un quadro che non significa nulla.
Anche Fontana mostrava capacità di sintesi. Bucava, tagliava la tela per ricercare uno spazio infinito.
Però in Rothko trovo qualcosa di diverso. A partire dal senso della violenza di cui lui parlava spesso. Forse amo l’arte quando è espressione di una solitudine.
Non la considera anche una forma di solidarietà sui generis tra l’artista e lo spettatore?
No. È una forma di identificazione, ma non c’entra nulla con la solidarietà.
Non ci si sente solidali con qualcosa in cui ci si identifica?
È vero proprio il contrario. La solidarietà è qualcosa che devi avere proprio quando non ti puoi rispecchiare, altrimenti non vale. Se sei solidale con quelli uguali a te che solidarietà è?
Continua a non dire che cosa le piace dell’arte, che cosa le dà, oltre a qualche soldino.
Non voglio essere retorico dicendo che l’arte suscita emozioni eccetera. Però non posso che essere banale nel rispondere: penso che l’arte faccia riflettere. Mi state chiedendo perché mi piace l’arte: credo che una risposta non ci sia. Se fossi soddisfatto dall’arte, l’arte perderebbe il suo significato. L’arte crea tensione ed è questo che mi piace ed è quello che trovo in Rothko. Mi spinge a farmi delle domande, ad avere un rapporto diverso con le cose che mi circondano.
Allora è questo che trova nell’arte?
No, per nulla. Otto volte su dieci fingo.
Per esempio quando visita le fiere?
Se c’è un posto dove l’arte non la puoi vedere sono proprio le fiere.
Perché ci va tanta gente?
È un bel momento di socialità, e questo non è poco. Sta di fatto che andando in giro per i corridoi è impossibile che tu dica: «Ho visto la fiera». Quante gallerie ci sono? 200? Ognuna di esse in media espone 10 opere? Fa duemila. Non puoi vederle tutte, va oltre i limiti umani. Da addetto ai lavori posso dire tutt’al più che è stata una bella fiera e che magari aveva un bel Public Program. Ma non posso dirlo dal punto di vista dell’arte.
Ma allora come visitatore che cosa può sperare di portarsi a casa da una fiera?
La fiera è un grande livellatore. Puoi capire cosa c’è di affine a te e perderti tra le opere che riesci a vedere.
Sarà per questo che da una fiera si esce spesso non solo affaticati ma confusi e abbastanza infelici.
Io non esco mai infelice, soprattutto per le mie buone relazioni.
Le piacciono così tanto le persone che fanno arte?
No, no.
Le ritiene più intelligenti della gente che fa altri mestieri?
Ma no, è impossibile generalizzare. Se paragonassi l’arte con altri mestieri culturali, direi che nell’arte c’è una chiusura molto più grande. Coloro che lavorano nel mondo dell’arte sono quasi tutti noiosi. Quando prima ho detto che l’arte non si può spiegare, ecco, loro invece vogliono spiegare tutto. C’è un piattume generale. Infatti nel mondo dell’arte frequento pochissime persone.
Può citare qualcuno del mondo dell’arte che le è piaciuto? Almeno da un punto di vista umano.
Dal punto di vista umano... Be’, visto che siamo a Torino uno dei primi che mi viene in mente è Luca Beatrice. Con lui vado a cena volentieri, ad esempio. Perché è simpatico. Con lui non bisogna avere sovrastrutture. Poi c’è Luigi Cerutti, che è diventato un mio caro amico. Valerio Berruti, perché con lui posso parlare di tutto. Arturo Galansino, Mario Cristiani, Sirio Ortolani, questi sono amici che frequento volentieri.
Dato che non può vedere un Rothko tutti i giorni, oltre il consenso e l’apprezzamento che lei riscuote per quello che fa non riesce a provare qualche altra soddisfazione?
Se vedessi un Rothko tutti i giorni, non sarebbe più Rothko. Però credo che l’arte contemporanea stia subendo sempre più l’influenza di altre discipline. L’arte fa continui riferimenti alla letteratura e offre punti di vista particolari su moltissimi temi, dai diritti politici all’economia, alla scienza: è uno strumento di conoscenza. A me interessa proprio per questo.
Questa è una prerogativa che lei attribuisce in esclusiva al mondo dell’arte oppure ce l’hanno anche altre discipline?
No. Ce l’ha solo il mondo dell’arte, secondo me. Mi interessano tantissimo i musicisti, i filosofi ecc. perché ti raccontano una storia. Ma questo è un valore che attribuisco principalmente all’arte.
Ballario, lei appare attivissimo, frenetico. Mettiamo che le capiti una giornata completamente libera, senza niente da fare, nessuno da vedere. Per stare bene e non annoiarsi, che cosa fa?
Tendenzialmente quando ho delle giornate libere dormo. In realtà se avessi del tempo libero mi spaventerei un po’, perché penserei di avere sbagliato qualcosa. Significherebbe che ho calcolato male il mio tempo e che avrei potuto fare qualcosa a cui invece ho rinunciato. Quando hai la fortuna di fare come lavoro qualcosa che ti piace, vivi in vacanza. Almeno ho questa impressione. So di non meritare questo privilegio, che c’è gente molto più preparata di me. Ma non sono uno che ha l’orrore del tempo libero. Dipende da dove sono e dal momento. Ad esempio, oggi sono a Torino. Se mi saltassero tutti gli impegni probabilmente prenderei il treno e andrei a Cuneo a trovare la mia famiglia. Ma se mi dovesse succedere a Cosenza dove non ho nulla da fare, andrei un po’ nel panico. Spererei di avere almeno un libro con me o Netflix per guardare un film, o di incontrare qualche amico o amica. Quando sono in contesti prestabiliti sono molto estroverso, ma se mi trovo solo non vado a caccia di rapporti sociali.
Ha una compagna o un compagno?
No, non ho una compagna perché ho difficoltà ad avere rapporti duraturi nel tempo. Forse sono un po’ egoista: ho bisogno di molto tempo per stare da solo e se avessi una relazione non lo potrei fare.
Qualcuno l’ha già profondamente delusa?
Perché qualcuno ti deluda devi aver creduto veramente in lui. Io non credo in nessuno. Delle mostre mi hanno deluso, ma dal punto di vista umano tecnicamente non è possibile.
Quindi in pratica lei afferma che l’arte serve alla società per i rapporti sociali che permette di avere?
Alla società in quanto tale l’arte non serve perché non incide, parlo soprattutto del contemporaneo. Però ha un’incidenza indiretta quando sfodera dei personaggi che ti permettono di affrontare meglio le discipline della creatività, della cultura. Perché comunque senza cultura non si vive.
Quale equiparazione effettiva può esserci tra l’arte visiva e altre forme artistiche come il cinema e la musica? Le succede che un film le dia più di una mostra?
Solo dal punto di vista della socialità. Quando un film piace a tanti, piace a tutti per lo stesso motivo. Vale la stessa cosa per i libri, l’arte applicata ecc. Se invece ti piace l’arte, ti piace per un motivo tuo, perché entra a far parte di te, diventa intima. Parlo del contemporaneo. L’arte classica è diversa perché tratta temi più universali. Questo è il motivo per cui l’arte contemporanea non è apprezzata a livello di massa.
Quindi c’è una bella differenza tra una persona che visita gli Uffizi e una che va a una fiera d’arte contemporanea.
Sono bisogni molto diversi. Chiunque vada a vedere gli Uffizi si porta a casa qualcosa per forza. Quando invece vai a vedere una mostra di arte contemporanea diciamo che uno dei primi motivi per cui si va è per dire che ci sei stato.
Lei è veramente impietoso.
Comunque il mondo dell’arte contemporanea è un mondo di gente interessante, di gente abbastanza colta, che include anche tanti collezionisti. Ritornando alla domanda di prima il primo motivo è quello. Ma non penso affatto che il mondo del contemporaneo sia tutto una truffa: è un mondo molto profondo, ma solo in una sua piccola parte. Allora può essere ciò che non si direbbe che sia: un mondo molto colto, intelligente, divertente.
Divertente?
Perché almeno quella piccola parte che mi piace frequentare è formata da gente libera, senza sovrastrutture.
O forse perché il contemporaneo sembra proporsi come un esercizio intellettuale simile ai cruciverba o ai rebus, che impone un esercizio di decifrazione e comprensione.
Come approccio forse sì. Ma credo che la vera differenza tra l’arte, in particolare contemporanea, e tutte le altre cose come il cinema e la letteratura, stia nel fatto che non è un passatempo. Andare a vedere una mostra non è un vero e proprio intrattenimento, come andare a un cinema o a un concerto. L’arte non può essere un sistema quotidiano per passare il tempo, non c’è una mostra tutti i giorni, neanche per i collezionisti c’è una mostra ogni giorno. Negli altri casi invece sì.
Perché un collezionista compra e vende opere?
Per tante ragioni. La prima è che è il sistema più facile per acquisire uno status symbol. Poi ci sono le ragioni reali: quando ti piace un’opera e ti suscita un’emozione, senti il bisogno in qualche modo di ricambiare e l’unico modo che hai per farlo è di pagare l’artista. Ci sono dei collezionisti che hanno «nutrito» il mondo dell’arte, come ad esempio Giuseppe Panza di Biumo. Ha fatto scoprire il valore di molte opere e ha permesso agli artisti di campare. Penso anche a Patrizia Sandretto, visto che siamo a Torino. Ha aperto una sua fondazione ed è l’unica che investe davvero sui giovani, che fa una scuola per i curatori ecc. Ha creato un sistema importante e se non ci fosse sarebbe un problema. Mancherebbe all’arte un attore principale a cui tanti si ispirano. È importante avere un investimento anche di questo genere.
Quindi secondo lei nessuno compra opere d’arte come investimento, nella speranza di guadagnare?
Non credo. Al massimo un collezionista vende dei quadri per comprarne di nuovi: ma per un azzardo, non per il guadagno.
Questo è un giudizio lusinghiero, ma prima lei aveva dato un giudizio severo, anzi scettico, sull’arte contemporanea.
Sono molto serio quando dico che non credo che il mondo dell’arte contemporanea sia una fregatura. Ci credo davvero. Credo che sia un mondo profondo, intelligente, che smuove qualcosa di importante. Se non fosse così avrei fatto altro.
Ma allora come spiega di aver dato una valutazione generale del contemporaneo tanto pessimistica? Si è già pentito?
Credo che nell’arte contemporanea si possa trovare un tratto peculiare che non si trova da nessun’altra parte. A differenza di un film o di un concerto, la cui durata è dettata da chi ha creato l’opera, nell’arte decidi tu quanto vuoi farla durare. Questa secondo me è la vera forza dell’immagine.
Ma questo della durata vale per qualsiasi forma d’arte, non solo contemporanea. Rimane il fatto che il rapporto con l’arte contemporanea è difficile. Il pubblico è spesso disorientato, quasi mai riesce a rintracciarvi bellezza.
Sono d’accordo. La mancanza di un approccio è la cosa che mi ossessiona: non aiuta il pubblico perché non capisce da che parte cominciare. La divulgazione è una questione di approccio, ed è quello che cerco di fare. Forse questo è il motivo per cui mi sono fatto un po’ di credito: perché cerco di spiegare il contesto, perché racconto come approcciare qualcosa. Credo di essere uno di quelli che prova di più a spiegare alle persone questo sistema, con tutti i mezzi che possiedo.
Non ha mai applicato questa sua capacità ad altri campi che non siano l’arte contemporanea?
Per poterlo fare devi conoscere bene l’ambiente, e io non ne avrei materialmente il tempo. Sono quasi vent’ anni che mi occupo di arte contemporanea e finalmente so come orientarmi. Se mi dicessi «fallo con la musica», per fare un’intervista mi ci vorrebbero altri 15 anni. Mi piacerebbe moltissimo saperlo fare anche in altri campi, ma non lo so fare. Molti si improvvisano esperti, soprattutto sui social, ma non hanno mai avuto un contraddittorio. Io invece lo ho avuto nel mio percorso.
Non c’è più contraddittorio oggi?
No. O meglio, io ce l’ho proprio in questo momento: con lei ora sono in una posizione scomoda perché di solito sono io a fare le domande. Mi capita raramente di dover dare delle risposte.
Allora, sia sincero, ritiene utile quello che fa? Lo ha detto lei stesso poco fa: l’arte è una materia fatua, dopotutto. Non necessaria.
Singolarmente non è necessaria. Ma alimenta una parte della vita, non solo socialmente. L’arte è propedeutica, è una parte essenziale della vita.
Perciò costa cara?
Sicuramente il mercato dell’arte è drogato. Basti pensare a quando tre anni fa hanno venduto per 70 milioni un Nft di Beeple («Everyday», opera Nft pubblicata da Beeple nel 2020 e venduta all’asta nel 2021, Ndr). Chi se l’era comprato a che prezzo riuscirebbe oggi a rivenderlo? In ogni caso a me che un’opera costi 100 milioni non interessa, è un gioco da ricchi e anche se avessi i soldi non so se parteciperei.
Gli artisti sanno perché fanno ciò che fanno? Che cosa cercano?
Mi verrebbe da rispondere come ho risposto all’inizio: per avere un lavoro. Invidio molto la loro sicurezza. Quando un artista trova un proprio lessico, lo scrive Karl Popper, nega quello degli altri. Questa è la cosa interessante degli artisti. Mi diverte molto vedere la sicurezza che hanno nel credere che il loro lessico coincida con il mondo. Quando poi s’imbattono nel linguaggio di un altro artista, che magari ha interpretato la loro stessa istanza ma in un modo un po’ diverso, anziché interessarsi lo criticano. Questa è una cosa che mi piace moltissimo. Si comportano come degli estremisti religiosi. Sono intolleranti.
Lei per fortuna è una persona sorridente: non trova che molti artisti abbiano pochissimo senso dell’umorismo?
Si prendono troppo sul serio: sono convinti di aver trovato la pietra filosofale.
Quali sono state le persone importanti per lei?
Uno è stato il direttore del suo giornale, il primo a farmi scrivere su un giornale, di carta oltretutto, dicendomi che potevo firmare il mio articolo e questo non è per nulla scontato. La persona che reputo più importante è sicuramente Oliviero Toscani, perché da lui ho imparato tutto. Se in questo momento faccio molte cose, televisione, radio e articoli, è perché ho imparato da lui. Professionalmente mi hanno stimolato Massimo Bordin, ex direttore di Radio Radicale, la prima radio con cui ho collaborato. E Iole Siena che mi ha tirato dentro a un sistema di impresari di esposizioni. Anche Lorenzo Lucidi, che ora è responsabile musicale di Radio2 e all’epoca lo era di Radio1: è grazie a lui che ho iniziato a fare radio. Aveva invitato Toscani per una trasmissione e Toscani aveva detto di volerla fare con me, altrimenti non si sarebbe fatto nulla. Dopo mi ha chiesto di fare altre cose, anche senza Toscani.
Che cosa le piace di sé stesso?
Oggi penso di aver imparato il senso della leggerezza. Secondo me è una cosa rarissima. Che non significa prendere le cose alla leggera, ma che la si può applicare a cose anche molto profonde come l’arte. Mi piace molto dimostrare che per trattare l’arte non è obbligatorio essere tristi e cupi. Penso che l’ironia sia uno dei miei valori più importanti.
Perché lei ha successo?
A differenza di molti non ho in testa un interlocutore fisso. Quando parlano d’arte tutti si rivolgono solo ai loro colleghi. Io non faccio questo. Se ho un talento è che sono intuitivo. Credo di avere l’intuito di riconoscere con chi sto parlando, e quindi so trattare con tutti. E so anche con chi non voglio trattare. E credo perfino di saper essere gentile.
Lei sfodera una bella allegria. Non si sente mai di cattivo umore?
Quando vedo che gli ultimi sono trattati come tali... Quella è una cosa che mi dà profondamente fastidio.
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