Tra le 88 partecipazioni nazionali alla Biennale Arte 2024, ci sono una serie di Paesi che, lontani dalla calca che affolla i Giardini e l’Arsenale, presentano le ricerche dei loro artisti nel centro storico di Venezia. Non è sempre facile trovare i padiglioni disseminati in città perché al piacere di perdersi nel labirinto di calli e canali corrispondono distanze non facilmente calcolabili a cui comunque gli amanti dell’arte si «sacrificano» pur di trovare le mostre segnate sul loro taccuino. Se si è fortunati, l’esposizione che si cerca potrebbe essere allestita all’interno di palazzi noti, facilmente individuabili perché recano i nomi di illustri famiglie della laguna (e quindi digitando il nome sul vostro google map li troverete), se lo si è un po’ meno l’unicità della location premierà lo sforzo della ricerca.
Il Padiglione della Repubblica del Camerun, con la mostra «Nemo propheta in patria», si trova a Palazzo Donà delle Rose, in Fondamente Nove. Nello stesso luogo è allestita la mostra del pioniere della media art Federico Solmi. Entrando i bagliori della «solmiana» impresa catturano l’attenzione, ma le opere camerunesi si trovano altrove, in una sala appartata in cui cinque grandi tele di Hako Hankson, classe 1968, spiccano per i loro numerosi spunti visivi. Odi al passato e ai miti delle antiche civiltà africane, i quadri dal gusto naïf e dal fortissimo impatto cromatico glorificano e stilizzano l’estetica del continente non curandosi di fondere in modo ardito temi, epoche e personaggi.
Al piano di sopra lo spazio è dedicato a Jean Michel Dissake, classe 1983. I suoi monumentali arazzi racchiudono una moltitudine di elementi rubati alla vita quotidiana. Targhe di automobili dismesse, pezzi di coperture di tetti, frammenti di terra, di latta, di tessuti disparati compongono un racconto articolato che pur variando da esemplare ad esemplare tende a esprimere il pluralismo di voci di un Paese, il più antico del mondo, accomunato da tradizioni e grandi migrazioni tra i suoi popoli, quest’ultime motivo di destabilizzazione interna. La maestria con cui sono cuciti gli enormi «puzzle» non passa inosservata e stride con il materiale povero utilizzato che si può comprendere solo avvicinandosi all’opera.
Se tra gli stessi popoli fratelli persiste ostilità e diffidenza (per non parlare di razzismo), che provoca quel doloroso senso di «estraneità» penoso a tutti, esistono condizioni esistenziali che suscitano altrettanto disagio. Il Padiglione della Repubblica dell’Azerbaigian, «From Caspian to pink planet: I am here», curato da Luca Beatrice e Amina Melikova, si apre con i quadri di Irina Eldarova, artista di origine russa, classe 1955, che ha traslato su tela esperienze al femminile. La donna che lascia il proprio Paese e la propria casa per amore di un uomo diventa emblema di una condizione comune alle donne, soprattutto in passato. Quadri che trasmettono vitalità e ottimismo, sotto le artefatte vesti di una rediviva Marilyn (sogno americano), sono affiancati a composizioni dove mimica e tonalità si incupiscono per lasciare spazio a scene di vita prive di spontanei guizzi di gioia e in cui la coppia, uomo-donna, prevale sull’individualità.
La giovane Vusala Agharaziyeva, classe 1990, lascia che sia il viaggio nello spazio, rappresentato nelle sue installazioni, video e dipinti, a trasmettere il senso di non appartenenza. La figurazione è semplice, memore di certe illustrazioni anni Cinquanta-Sessanta e il colore rosa, che l'artista usa ovunque, evoca un’età in cui l’innocenza concedeva un utilizzo sfrenato di questa tonalità. Infine, Rashad Alakbarov, nato nel 1979, pare voler «mettere un punto» a conclusione di un percorso, concettualmente, sospeso. La sua labirintica installazione «I Am Here» osservata dall’alto, quindi da una prospettiva «diversa», rivela nel suo riverbero la propria esistenza: «Io sono qui» è l'espressione riflessa su uno specchio. Ogni lettera della frase «I Am Here» è realizzata con frammenti di tappeti tradizionali della cultura azera a dimostrazione che le origini, in fondo, non si estirpano mai.
Le proprie origini sicuramente non le avevano dimenticate gli schiavi delle colonie portoghesi. Per quattro secoli, sino al XIX secolo, 6 milioni di africani sono stati rapiti e trasportati con forza attraverso l’Atlantico da navi portoghesi per essere brutalmente venduti. Al Padiglione del Portogallo, all’interno dello splendido Palazzo Franchetti, la mostra «Greenhouse», curata dalle stesse artiste presenti nel percorso, Mónica de Miranda, Sónia Vaz Borges e Vânia Gala, è concepita con l'allestimento di un «Giardino Creolo».
«Questi giardini erano e sono l’antitesi della piantagione monoculturale. Densamente piantato e ricco di biodiversità, “Il Giardino Creolo” promuove uno spazio materiale e discorsivo di liberazione, possibilità e molteplicità», per dirla con le curatrici. Le piante sparse nello spazio, a formare piccole oasi di profumi e colori tra le architetture classiche del palazzo, sono tutte originarie di alcune regioni africane. Alla violenza della storia è contrapposto lo splendore della diversità che fa dello straniero, diverso tra i diversi, elemento unico e irripetibile, un po' come le piante. Fortemente impegnate nel sostenere l’impegno decoloniale ed ecologico, le autrici celebrano così due date storiche: il centenario della nascita di Amílcar Cabral, leader portoghese anticoloniale e il cinquantesimo anniversario della Rivoluzione dei Garofani grazie alla quale è finita la dittatura portoghese (1974).
Dalla diaspora di intere generazioni del continente africano, la cui identità e riconoscimento culturale è stato tema controverso, si passa alla percezione di ciò che comunemente viene considerato «diverso». Il Padiglione di Cuba, al Teatro Fondamenta Nove, è un’immersione, complice la location, in un pièce beckettiana sebbene qua «Godot» ci sia, se solo si cerca veramente. Wilfredo Prieto García, unico artista della mostra «Curtain», immerge il pubblico in un grande spazio buio, a pochi passi dal mare.
La sensazione di spaesamento, forse addirittura angoscia nel non trovare nessun appiglio visivo tutt’intorno è edulcorata da un’improvvisa apparizione qualche istante dopo esser entrati nell’ambiente. L’occhio si abitua infatti alla rarefatta luce e riesce a percepire qualcosa. Un masso a terra, illuminato da un faro sovrastante, è l’unica certezza, l’unico oggetto al quale istintivamente ci si può avvicinare perchè appare chiaro allo sguardo. Eppure non è l’unica presenza nella grande sala: un sasso identico si trova a pochi passi e, seppur in ombra, «splende di luce propria». Operazione concettuale senza fronzoli, diretta, questa messinscena lascia l’amaro in bocca più di qualsiasi altra esperienza.
Sorprende, questo forse non è il verbo più corretto da utilizzare, il Padiglione della Mongolia. Se infatti, come recita il titolo della sua esposizione («Discovering the Present from the Future») dovessimo scoprire il nostro presente dal futuro, quindi dalle mostruose sculture «simil scheletri umani» che penzolano dal soffitto, quale sarebbe il risultato? Ochirbold, autore delle installazioni scultoree interattive, si ispira alla divinità buddista Citipati (protettore dei morti) per responsabilizzare noi tutti sulla precarietà della vita e a favore di una generale trasformazione spirituale. Nel cogliere l’invito con assoluto rispetto, la perplessità su questi lavori, ahimè, rimane.
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