Esattamente un mese dopo che il comitato di selezione aveva scelto l’artista Ruth Patir per il Padiglione israeliano alla 60ma Biennale di Venezia, Hamas ha compiuto le sue atrocità in Israele, uccidendo 1.200 persone e prendendone 240 in ostaggio. Per due settimane dopo il 7 ottobre, «siamo rimasti paralizzati, congelati dalla paura e dallo shock, afferma Mira Lapidot, curatore capo del Museo d’Arte di Tel Aviv e cocuratore del Padiglione insieme a Tamar Margalit. Ma poi abbiamo deciso che dovevamo andare avanti, prosegue. L’arte non è un lusso, anche se a volte, in tempi di guerra e di orrore, lo sembra. È fondamentale per costruire la comprensione tra le persone».
La Biennale è spesso specchio di guerre e tensioni geopolitiche, anche in virtù della sua struttura centenaria, a lungo criticata come anacronistica, con padiglioni nazionali. Prima della scorsa Biennale, gli artisti e il curatore scelti per il Padiglione della Russia si sono ritirati dopo l’invasione dell’Ucraina. In un’epoca in cui la guerra è una realtà quotidiana per milioni di persone, non sorprende che il conflitto sia un tema ricorrente anche in questa edizione.
Secondo i dati del Ministero della Sanità di Hamas, alla fine di febbraio le rappresaglie israeliane a Gaza avevano causato più di 30mila vittime. La devastazione si è estesa a siti e musei del patrimonio culturale: al 21 febbraio, l’Unesco aveva accertato danni a cinque siti religiosi a Gaza, dieci edifici di interesse storico e artistico, due depositi di beni culturali mobili, un monumento, un museo e tre siti archeologici. Il conflitto tra Israele e Hamas ha creato spaccature nel mondo dell’arte anche oltre i confini nazionali, in particolare in Germania, dove varie mostre sono state cancellate perché artisti o curatori hanno rilasciato commenti considerati dalle istituzioni come antisemiti o anti Israele.
Il Padiglione israeliano alla Biennale è già stato oggetto di una lettera aperta che ne chiedeva l’esclusione dalla Biennale, firmata da migliaia di artisti e operatori culturali. La lettera è stata pubblicata alla fine di febbraio dal gruppo Art Not Genocide Alliance. Il ministro della Cultura italiano, Gennaro Sangiuliano, l’ha definita «vergognosa» e ha espresso «profonda solidarietà e vicinanza» allo Stato di Israele, ai suoi artisti e ai suoi cittadini. La Biennale ha dichiarato in un comunicato che «tutti i Paesi riconosciuti dalla Repubblica italiana possono chiedere autonomamente di partecipare» e non darà ascolto a «nessuna petizione o appello per escludere la partecipazione di Israele o dell’Iran».
Lapidot afferma di essere consapevole che le proteste al Padiglione israeliano sono un rischio. «Sì, siamo israeliani, ma non rappresentiamo il nostro Governo», ha affermato, aggiungendo che spera che il padiglione ricordi ai visitatori che «Israele è più di Netanyahu in tv». La mostra «Motherland» di Ruth Patir consiste in installazioni video che animano manufatti archeologici, statuette femminili datate tra l’800 e il 600 a.C. «Donne abbandonate di una civiltà passata, le statuette ci raggiungono attraverso il tempo, sia intatte sia, più spesso, rotte: resti di faide sanguinose», si legge nel comunicato stampa.
Palestinesi respinti
Mentre Israele ha scelto di andare avanti con il suo padiglione nazionale, gli aspiranti partecipanti palestinesi dicono di essere stati esclusi dalla Biennale. Faisal Saleh, fondatore del Palestine Museum US di Woodbridge, nel Connecticut, ha lanciato una petizione dopo che la sua proposta per un progetto tra gli «Eventi collaterali» della Biennale, che prevedeva la partecipazione di 23 artisti tra cui alcuni provenienti da Gaza, era stata rifiutata. Nella petizione, che a febbraio aveva raccolto quasi 22mila firme, Saleh scriveva: «L’esclusione delle voci palestinesi contribuisce a creare un quadro incompleto che mina gli sforzi verso la comprensione e la pace».
Gli artisti palestinesi sono comunque rappresentati a Venezia: uno degli Eventi Collaterali, «South West Bank-Landworks, Collective Action and Sound», è organizzato da Artists + Allies x Hebron in collaborazione con Dar Jacir for Art and Research, che ha sede a Betlemme. Una delle mostre di questo progetto, «Freedom Boat», prevede un viaggio lungo il Canal Grande e intorno ai Giardini nei giorni di apertura della Biennale. Presentata da un gruppo inglese, Artists Against Apartheid, gli artisti a bordo «condurranno letture, performance e altri atti in nome della solidarietà palestinese», come si legge nel comunicato del progetto. Tra i collaboratori figurano Issa Amro, un attivista palestinese, e l’artista Emily Jacir. «South West Bank» comprende anche fotografie di ulivi, alcuni dei quali millenari, scattate da Adam Broomberg e Rafael González nei territori occupati.
Conflitti in corso e futuri
Ancora una volta la Russia è assente a Venezia. Diversamente da quanto i visitatori potrebbero pensare la mostra del Padiglione dell’Ucraina, dal titolo «Net Making», non descrive attività di artigianato casalingo, ma si riferisce alla tessitura collettiva di reti mimetiche da utilizzare nella guerra in corso. Il padiglione, si legge in un comunicato, affronta «il tema dell’alterità attraverso le esperienze personali della guerra, dell’emigrazione e dell’assimilazione in nuove società». Tra le opere presentate, «Civilians. Invasion» (2023), un film di Daniil Revkovskyi e Andrii Rachynskyi, racconta la storia dei primi giorni dell’invasione russa attraverso gli occhi dei sopravvissuti, ed è assemblato da video trovati online. Gli artisti lo descrivono come un’«enciclopedia dell’orrore, che cattura le esperienze strazianti che le persone subiscono durante un’invasione su larga scala».
Un punto geopolitico «caldo», che sui quotidiani occupa meno titoli di Gaza o Israele, dedica un’intera mostra alla guerra. «Everyday War» è il titolo del contributo di Taiwan a questa Biennale, una personale di Yuan Goang-Ming. Un nuovo video dell’artista immagina un attacco devastante nella sua casa: «I vetri si frantumano rumorosamente, gli aerei da guerra volano uno dopo l’altro, distruggendo gli oggetti nella stanza, si legge in un comunicato stampa. Infine, tutti gli aerei si annientano l’un l’altro e l’intera casa viene abbandonata come una rovina all’indomani della battaglia». Il lavoro di Yuan «permette alle persone di capire veramente che cosa significhi vivere a Taiwan, afferma Abby Chen, curatrice della mostra. E potrebbe essere dieci volte peggio di quanto immaginiamo. Yuan Goang-Ming presenta una situazione di grande ansia, ma allo stesso tempo credo che ci faccia intravedere una via d’uscita».
Trattata dalla Cina come una regione separata che deve essere unificata con il suo vasto vicino, negli ultimi mesi la democratica Taiwan è stata sottoposta a crescenti pressioni militari, economiche e diplomatiche. Un’altra delle opere di Yuan esposte a Venezia, «Everyday Maneuver» (2018), mostra le esercitazioni aeree annuali obbligatorie e alle quali tutti i taiwanesi devono partecipare. «Ogni anno l’artista e la sua famiglia devono mettersi al riparo, conclude Chen. Ma l’opera di Yuan mostra l’ordine, non il caos o la paura. Questa è una situazione che non si vede spesso al giorno d’oggi: autorità e civili che collaborano. Perché c’è la presa di coscienza di condividere qualcosa».
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