Alessandro Morandotti
Leggi i suoi articoli23 luglio. Una visita a Pisa, per vedere l’esposizione dedicata dalla sua città a Orazio Riminaldi (1593-1630), caravaggesco riformato autore di opere molto significative se scelte bene. La qualità un poco discontinua delle opere in mostra lasciava comunque ampio spazio al suo talento, nutrito dall’esempio dei suoi incontri romani, tra Bartolomeo Manfredi e i suoi più stretti compagni di strada francesi e fiamminghi, con occhiate sensibili anche a Giovanni Lanfranco e a Simon Vouet.
In mostra il quadro di contesto non restituiva pienamente le parentele stilistiche del pittore pisano, la cui consuetudine con il concittadino Orazio Gentileschi non va oltre un sodalizio puramente operativo, come anche ricordano in catalogo i curatori dell’iniziativa di studio, Pierluigi Carofano e Riccardo Lattuada. Per questo si sarebbe volentieri vista qualche opera di Lanfranco e di Vouet a fianco delle molte di Gentileschi, non sempre peraltro scelto ai suoi vertici, che conosciamo bene.
Certo rimane indelebile il ricordo di alcuni capolavori di Riminaldi in mostra, dall’«Amore vincitore» di collezione privata, un’interpretazione di Manfredi assimilata attraverso il filtro stregato di Valentin, alla «Vestizione di santa Bona» della Chiesa di San Martino a Pisa, la più sensibile rilettura di Vouet che il pittore abbia mai saputo restituire, come ci ricorda il dettaglio della testa della santa scelto molto efficacemente come immagine di copertina del catalogo.
Ci si spingeva poi fino al Duomo pisano per ammirare il catino della cupola dipinta a olio da Riminaldi, con un occhio alle invenzioni aeree di Lanfranco e dei bolognesi a Roma. La mostra era anche l’occasione per celebrare il restauro recente di quella superba decorazione murale, di cui in mostra si potevano vedere studi e modelli appartenenti perlopiù all’Opera del Duomo, testimonianze dello stretto sodalizio fra Riminaldi, e il fratello scultore in legno Giovanni Battista, con la Fabbrica del Duomo, legame favorito dall’amicizia di una vita con il banchiere pisano Curzio Ceuli, Operaio della Primaziale di Pisa.
In mostra, un superbo ritratto di Ceuli dipinto da Orazio Riminaldi verso la fine del terzo decennio, da vedere idealmente accanto a un analogo esemplare di Borgianni o Valentin, ci ricordava questa lunga consuetudine tra artista e mecenate. Uscire poi attraverso le porte del Duomo sulla piazza dei Miracoli, tra i celebri monumenti che sembrano incastonati lì da una mente divina, permetteva di apprezzare quell’isola felice di civiltà paesaggistica e museografica, per nulla intaccata e sporcata dalle folle oceaniche che ne percorrono i sentieri tra i prati sempreverdi anche d’estate. Un senso di ordine e di pulizia che invita al rispetto e denota una cura sensibilissima.
L’intelligenza dell’allestimento ormai storicizzato delle ampie gallerie porticate del Camposanto di Pisa, nonché quella analoga del Museo delle Sinopie dei celebri affreschi medievali e rinascimentali del Camposanto visibile lì al fianco, si accordava con il rinnovato assetto del Museo dell’Opera del Duomo, i cui spazi sono scanditi dal tono brunelleschiano dei grigi alle pareti, perfetti per accogliere i capolavori della scultura, dell’oreficeria e dell’arte del tessuto nati perlopiù in funzione dei culti e della magnificenza sacra del Battistero e della Cattedrale. E il percorso didattico nelle sale, organizzato per tipologia di materiali, storia di provenienza e ordine cronologico è davvero esemplare.
Un altro mondo, governato da un dio minore, ci accoglieva poco distante nelle sale del Museo Nazionale di San Matteo, una delle grandi collezioni pubbliche della Toscana. Un senso di abbandono, segno di trascuratezza e non di fascino come capita altrimenti in luoghi poveri e sperduti dell’Italia, che contrasta con i capolavori esposti e il buon impianto didattico delle sale. Il fronte d’ingresso, dagli intonaci cadenti, era caratterizzato dalla presenza di un’ingombrante automobile posteggiata nella piazzetta di quel piccolo santuario pubblico quasi profanato da quella presenza.
In era post Covid il museo è aperto solo previo appuntamento, anche perché il personale è ridotto all’osso e nelle sale si è seguiti solo dall’occhio delle telecamere di sorveglianza. Un avamposto periferico, dove ci si sente, personale e pubblico, dimenticati dallo Stato, e, quasi intrusi, si prova disagio a camminare pressoché soli tra i pavimenti sconnessi di quel luogo, mentre l’erba del chiostro dell’antico monastero oggi sede del Museo stenta a vivere.
E tutto questo a poche centinaia di metri in linea d’aria dalla zona protetta dei grandi monumenti medievali. Eppure le opere presenti al Museo (capolavori di scultura e di pittura, di Giovanni, Andrea e Nino Pisano, di Simone Martini, Masaccio, tra gli altri), riempiono le pagine dei manuali di storia dell’arte tanto quanto quelle visibili nella zona «privilegiata» di piazza dei Miracoli.
È una perfetta fotografia dell’Italia a due velocità che investe drammaticamente la società e naturalmente anche i luoghi della cultura; esiste infatti un’insopportabile gerarchia di attenzione conservativa e di investimenti economici per la quale contano solo pochi luoghi di sicura attrazione turistica mentre cala il silenzio e il disinteresse pressoché su tutto il resto. Senza alcuna attenzione al tessuto connettivo delle città e dei loro dintorni, senza valutare l’importanza di mantenere viva l’attenzione per la rete di chiese e di musei che rendono unico il nostro Paese. Ci sarebbe proprio bisogno che qualcosa cambi, grazie a veri e propri miracoli…
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