Apichatpong Weerasethakul

© Harit Srikhao, Bangkok City

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Apichatpong Weerasethakul

© Harit Srikhao, Bangkok City

Apichatpong Weerasethakul: «L’arte è limitata, la natura no»

Nell’ambito del Festival d’Automne di Parigi, il Centre Pompidou dedica una retrospettiva all’artista e regista thailandese, vincitore della Palma d’Oro a Cannes nel 2010

Figura di spicco del cinema contemporaneo (acclamato nel 2010 con la Palma d’Oro per «Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti»), artista visivo celebrato in numerose mostre (su tutte, la partecipazione alla 58ma Biennale di Venezia «May You Live in Interesting Times» nel 2019), esploratore delle possibilità fornite dalle nuove tecnologie immersive, Apichatpong Weerasethakul (Bangkok, 1970) si muove costantemente tra tutte le forme dell’immagine in movimento, sviluppando un’opera onirica, contemplativa e sensuale che mescola le reminiscenze del passato con la vertigine della fantascienza, dando spazio alle metamorfosi dei vivi, alle pulsazioni dei sogni e alla presenza dei fantasmi. 

Come suggerisce il titolo «Des lumières et des ombres» («Delle luci e delle ombre»), la retrospettiva completa dei suoi film e video ideata dal Centre Pompidou di Parigi con l’artista (fino al 6 gennaio 2025) sfuma deliberatamente i confini tra il mondo diurno e quello notturno: ad esempio, il padiglione che in precedenza ospitava le opere di Constantin Brancusi sulla piazza del Centre Pompidou, dedicato per la prima volta all’opera di un artista contemporaneo, è stato immerso nell’oscurità con le sue grandi vetrate per la mostra site specific «Particles de nuit» («Particelle notturne»).

Qual è stato il suo primo shock estetico?
Ce ne sono stati così tanti che è molto difficile identificarli. Forse sono stato segnato dalle immagini da quando ho iniziato a guardare i film, all’età di 7 o 8 anni. Il mio primo ricordo è un film di serie B thailandese degli anni Settanta, con l’inquadratura di un elicottero che si dirige verso il mare. Ricordo l’immensità dello schermo e gli elementi di lavorazione, che erano così impressionanti.

Lei ha studiato architettura in Thailandia e poi cinema negli Stati Uniti, a Chicago. Quali registi e artisti l’hanno influenzata nei primi anni?
Mi piacciono molto i registi sperimentali americani, in particolare Bruce Baillie e Maya Deren. Tra gli artisti, sono particolarmente sensibile al lavoro di Joseph Cornell e Hans Richter. Amo quel periodo in cui gli artisti sperimentavano con le immagini in movimento, creando una sorta di rottura tra cinema e arte.

Chi le interessa oggi?
Non seguo nessuno in particolare. Ammetto di non guardare film da molti anni; lo stesso vale per l’arte. Quando mi chiedono se conosco questa o quella persona, rispondo che non ho idea di chi siano! Non posso fare nomi, non sono più nel giro. Il motivo è sia la mancanza di tempo sia la mancanza di interesse. Preferisco stare a casa a guardare gli alberi o a cenare con gli amici. Ultimamente mi sono interessato di più alla vita, creando video o disegni che mi danno grande piacere e pace, stando a contatto con la natura e riflettendo sui semplici movimenti della vita. I miei lavori più recenti riguardano soprattutto le ombre e il sole. Le albe e i tramonti mi hanno aperto uno spazio immenso, così come la meditazione. È senza limiti. A volte ho la sensazione che l’arte sia piuttosto limitata, mentre la natura è molto vasta. Non è mai ferma, mai statica.

La natura è molto presente nei suoi film: la luce, le nuvole, la giungla... «Memoria» (film del 2021 interpretato da Tilda Swinton e vincitore del Premio alla Giuria al Festival di Cannes, Ndr) si conclude con una lunga inquadratura del cielo in un’atmosfera tempestosa. Questo interesse per le albe e i tramonti riflette il desiderio di tornare alle origini?
Per me la natura è la bellezza per eccellenza. Non è solo uno sfondo. È connessa a tutto, anche a noi stessi. Siamo parte di essa, non è un film o una performance. Negli ultimi dieci anni ho cercato di tradurre o documentare questa semplicità che ha il potere di espandersi da qualcosa ed è aperta a tutti.

La sua pratica di meditazione e la sua attenzione alla natura sono legate al buddhismo, che permea la cultura thailandese?
Credo di sì, è parte integrante del mio gusto per l’assenza di autorità. Inoltre, risponde a molte delle domande che mi pongo. Per me è molto scientifico: si tratta di non credere a nulla.

Il Centre Pompidou sta presentando una retrospettiva dei suoi film e video, una mostra, una performance e una pubblicazione. Com’è nata questa mostra?
Questa retrospettiva raccoglie tutti i film e i video che ho realizzato negli ultimi 25 anni, oltre a una selezione, forse il 10%, della mia produzione di arte visiva. Avremmo avuto bisogno di più spazio per mostrare tutti i video. Si tratta quindi di una selezione. C’è anche la mia ultima performance, in realtà virtuale. I visitatori potranno vedere chiaramente questo mio interesse per la natura e il movimento; non si tratta tanto di storie quanto della questione del nostro aspetto e del nostro modo di essere. Ringrazio il Centre Pompidou per avermi fatto riscoprire tante opere che avevo dimenticato! Anche se potrebbe sembrare un omaggio postumo… Quando ho rivisto tutto questo, mi sono reso conto che il mio lavoro si è evoluto molto. Ho scoperto un’altra persona, una persona che crede profondamente nel cinema e nella sperimentazione con le immagini. 

Lei ha realizzato otto lungometraggi e una trentina di cortometraggi. Che cosa pensa dell’evoluzione del suo lavoro dai primi cortometraggi e video del 1994?
Da un lato riflettono il processo di invecchiamento, l’innamoramento, la perdita dell’amore e anche, molto concretamente, la perdita della morte, e dall’altro esprimono la fede nel cinema. Quando ero più giovane, credevo davvero nel cinema come una religione. Ma oggi mi pongo molte domande. Questa retrospettiva mostra la rigidità dell’enfasi sulla sperimentazione nei miei primi lavori, ma nelle opere successive è più semplice, non cerco di sperimentare, di andare oltre i limiti o di cercare un limite nel cinema, perché a volte non c’è risposta. Per esempio, l’ultima opera presentata nell’allestimento nell’Atelier Brancusi mostra semplicemente un fiume e un ponte.

«Primitive» (2009), la sua installazione multidisciplinare, è stata esposta in diversi musei, tra cui l’Haus der Kunst di Monaco. Ha partecipato a Documenta 13 nel 2012, poi ha vinto il Gold Award all’11ma Biennale di Sharjah nel 2013 per la sua collaborazione con Chai Siris. Nello stesso anno le è stato assegnato il Fukuoka Asian Culture Prize. Nel 2016, la sua prima grande monografia si è tenuta in Thailandia presso il Maiiam Contemporary Art Museum di Chiang Mai. Le sue installazioni recenti includono «Constellations» (2018), «Fiction» (2018), «SleepCinemaHotel» (2018), «A Minor History» (2021, 2022) e «Solarium» (2023). Importanti istituzioni come la Tate Modern di Londra, la Fondation Louis-Vuitton e il Centre Pompidou di Parigi e il Museum of Contemporary Art di Tokyo ne hanno acquistate alcune. Considera il suo lavoro d’artista e i film di cui è regista come un insieme omogeneo?
Penso di sì. Sono essenzialmente luci e immagini in movimento, illusioni; sono l’espressione dei miei sogni, in un certo senso luci interiori. Fondamentalmente, è sempre lo stesso gruppo di persone che lavora a queste creazioni; è tutto paragonabile allo stesso cervello, con ricordi diversi ogni volta.

Still dal video «Uncle Boonmee: Who Can Recall His Past Lives» (2010) di Apichatpong Weerasethakul. © Apichatpong Weerasethakul. Cortesia di Pyramide

Come lavora?
Disegno molto e scrivo libri di sogni. Scrivo una sceneggiatura molto classica perché, per me, è come dipingere. Come la pittura tradizionale, che richiede una certa disciplina. Ma la vera gioia è lavorare con la troupe durante le riprese, affrontare certi problemi, condividere quel momento. Trovo molto interessante cercare di tradurre questo sogno o certe sensazioni in realtà.

Sviluppa una sceneggiatura prima di realizzare i suoi film sperimentali, come fa per un lungometraggio?
Per i cortometraggi e le videoinstallazioni non c’è una sceneggiatura, ma solo schizzi, viaggi e molte ore di riprese per costruire l’opera.

Il lavoro documentaristico si riversa nella fiction e viceversa?
Sono sempre interessato a questo rapporto tra realtà e immagini in movimento. Quando si creano immagini in movimento, secondo me, non è più realtà. È il punto di vista di una sola persona, tutto diventa molto soggettivo: si manipola tutto, dai tempi alle inquadrature, con mezzi diversi. Non credo che questo tipo di lavoro sia più documentario o fiction. È una sorta di negoziazione. Questi due generi sono solo un’altra forma di realtà. Rappresentano la loro realtà.

La critica non ha tardato a lodare il suo talento, soprattutto al Festival di Cannes: «Blissfully Yours» ha vinto il premio Un certain regard nel 2002; «Tropical Malady» il Gran Premio della Giuria nel 2004; «Uncle Boonmee: Who Can Recall His Past Lives» ha vinto la Palma d’Oro nel 2010; «Memoria», il suo primo film girato fuori dalla Thailandia con Tilda Swinton, ha vinto il Premio della Giuria nel 2021. «Syndromes and a Century» (2006) è riconosciuto come uno dei migliori film del decennio. Che cosa ha significato questo riconoscimento nella sua carriera?
Mi ha permesso di viaggiare e di continuare il mio lavoro. I miei film mi hanno dato la possibilità di organizzare onestamente la mia vita, di concentrarmi sulle mie creazioni, ma anche di cercare di tracciare una linea sottile tra vita e lavoro. 

Ha un’opera preferita nella sua filmografia?
Dovrei dire «Syndromes and a Century», perché quel film mi ha fatto prendere coscienza del tempo. Prima mi ero concentrato solo sulla fine, ma durante le riprese sono stato molto attento a tutto, a ogni minuto. Credo che si veda. Ha quella qualità, diciamo così, di «rilassatezza» e «presenza».

Attraverso i suoi occhi, i suoi film mostrano la Thailandia, di cui lei è uno dei registi più emblematici. In che modo la storia, la cultura e il potenziale narrativo di questo Paese la ispirano?
Mi piace il fatto che non sia un Paese mai organizzato, ma anzi molto caotico. C’è sempre qualcosa di nuovo in questo Paese, che è molto aperto sia su ciò che non va, sulla violenza, ma anche sulla bellezza. L’inefficienza del Governo costringe la gente a cavarsela da sola. Molte persone vivono in una sorta di emergenza e devono pensare al proprio futuro. Apprezzo questo tipo di unicità in un Paese che ti tiene costantemente sulle spine. Se si vuole fare un film, ci sono infiniti modi di affrontare questo Paese. Per me è come un grande tesoro. Da quando vivo a Chiang Mai, mi lamento spesso e la gente mi chiede perché non mi trasferisco, ma allo stesso tempo non posso andare altrove. Questo Paese è così problematico da essere affascinante. Vivere qui è una vera fonte di ispirazione. Penso che sia difficile definire questa cultura, come ogni cultura, perché è in continua evoluzione. Certo, ho un rapporto molto forte con la natura animista. Non posso cambiare questo patrimonio culturale, questo tipo di credenze è nel mio Dna: vivere con gli spiriti. Ma nel complesso tutto mi ispira. Viviamo in un contesto di forti contraddizioni: la tradizione, l’influenza del buddhismo, ma anche una forte americanizzazione. La nostra cultura è un mix di influenze in continua evoluzione. La Thailandia è un Paese molto giovane. Tuttavia, non direi che mi ispiro solo alla Thailandia. Per «Memoria», ad esempio, ho viaggiato in Colombia. Sono interessato a tutto ciò che accade altrove nel mondo.

Guardando al passato, quali temi sembrano accomunare i suoi film?
Tutto ruota intorno alla memoria; il tema comune è il ricordo. Emergono anche lampi di sentimenti. Le sensazioni del tempo che passa sono un altro filo conduttore del mio lavoro. A volte ci sono delle storie, ma il tempo è molto importante. Una volta realizzate, queste immagini non mi appartengono più: diventano il tuo tempo. Queste opere ti fanno capire che sei nella macchina del tempo collettiva, ma che la tua esperienza è singolare. Ci sono modi diversi di vedere per persone diverse. Alcune persone hanno già visto i miei film, ma li rivedranno o ne scopriranno altri in un altro momento della loro vita. L’ho sperimentato io stesso, quando ho visto un film girato vent’anni fa. Invecchiando, la prospettiva cambia.

In concomitanza con questa retrospettiva, lei terrà una masterclass e realizzerà un cortometraggio nell’ambito della collezione «Where are you now», che sarà presentata al Centre Pompidou nel dicembre 2024. A che punto è esattamente la sua carriera?
Sono più entusiasta che mai di fare film! È un modo fantastico di aprirsi al mondo. È uno spazio in cui mi interrogo davvero sul cinema. Fare film è un modo per scoprire il mezzo. Oggi mi piace anche condividere, condurre laboratori e insegnare all’Università. Mi piace molto incontrare e ascoltare i giovani e gli altri cineasti.

A quali altri progetti sta lavorando?
Sto lavorando a una nuova performance, che ho appena iniziato e richiederà alcuni anni. Sto anche scrivendo un nuovo lungometraggio ambientato in una zona particolare dello Sri Lanka. Ma non posso dire molto di più perché lo sto cambiando continuamente. È simile a «Memoria», che non è tanto una storia quanto un’esperienza, quella di vivere con i ricordi degli altri.

Quale consiglio darebbe a un giovane artista o regista?
Non sottovalutare la natura e scoprire la propria natura, il proprio tempo. E non fare paragoni! Magari diminuire o eliminare i social network... Staccatevi dalla civiltà e immergetevi nella natura per una settimana o più. Il semplice fatto di essere lì ha una tale potenza da avere un impatto sulla vostra creatività.

Stéphane Renault, 25 ottobre 2024 | © Riproduzione riservata

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