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«Untitled (Gray Drawing (Pastoral))» (ca 1946-’47) di Arshile Gorky

© The Arshile Gorky Foundation. Foto di Genevieve Hanson

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«Untitled (Gray Drawing (Pastoral))» (ca 1946-’47) di Arshile Gorky

© The Arshile Gorky Foundation. Foto di Genevieve Hanson

All’apertura Art Basel era eclatante, ma poi...

Zwirner ha annunciato la vendita di una tela di Joan Mitchell per 20 milioni di dollari, Hauser &Wirth di un pastello di Gorky per 16 milioni. Notizie incoraggianti. Ma l’assimilazione del mercato dell’arte a quello del lusso è un segnale negativo

Bruno Muheim

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Sembrerebbe che appena arrivati negli stand i collezionisti si scatenino a comprare il primo quadro sulla parete e a usare immediatamente la loro carta di credito. La verità e diversa. È evidente che il gallerista da diversi mesi ha mandato documentazione dei suoi quadri più importanti ai potenziali acquirenti. Una volta espresso un fermo interesse, sarà convenuta la conclusione definitiva dell’acquisto in fiera. Così il gallerista potrà emettere un comunicato stampa trionfale assicurandosi una pubblicità immediata e un crescente interesse da parte del pubblico. Non c’è niente di illegale è solo una prassi di marketing. Zwirner, per esempio, ha una decina di spazi espositivi nel mondo, uno più bello dell’altro, dove si concludono tante vendite milionarie, ma essendo Art Basel per una settimana la concentrazione assoluta dei più importanti collezionisti, direttori di museo, consulenti e critici d’arte, deve assumere la sua funzione principale di faro del mercato dell’arte.

La maggior parte degli esperti non ha notato né orde di visitatori né una qualità strabiliante delle opere esposte, certo tutto molto dignitoso, siamo a Basilea, ma niente di sfavillante. Per i tempi presenti è già un successo enorme. Le ultime aste di New York di arte moderna e contemporanea hanno avuto una percentuale del venduto che dimostra un certo dinamismo del mercato, peccato che i valori assoluti fossero molto inferiori rispetto allo scorso anno. Il grande problema del mercato dell’arte (intendo le opere successive al 1945) è la riduzione estrema dell’offerta. I compratori ci sono ma non trovano abbastanza opportunità. In questi ultimi sei mesi il fatturato totale delle case d’aste sarebbe quasi del 40% inferiore allo stesso periodo nel 2023.

Possiamo anticipare per il 2024 un’eccellente annata per i galleristi e dunque delle fiere d’arte? Una casa d’asta rimane sempre vittima delle 3D, «death, divorce, debts». Coppie innamorate come al primo giorno, speranze di vita troppo lunghe e gestioni sane del proprio patrimonio sono circostanze mortifere per le case d’asta! Auguriamoci vivamente tanti divorzi sanguinari e altrettanti incidenti domestici gravi per risanare i conti di Christie’s e Sotheby’s... 

I galleristi hanno due carte vincenti in mano. Anzitutto hanno la disponibilità del loro stock che possono sfruttare a volontà. I galleristi d’arte contemporanea che rappresentano un artista vivente sono certi che la loro vittima produrrà con grande regolarità sufficienti opere per riempire tutti gli stand delle diverse fiere in giro per il mondo. Un’offerta ridotta è la forza dei galleristi, ma una domanda scarsa è problematica per loro perché rimangono seduti sul loro stock risicato. Queste osservazioni valgono per le opere trattate ad Art Basel. La situazione delle fiere d’arte classica è molto più tesa e problematica, ovviamente ad eccezione di Maastricht. Il dinamismo di Art Basel e dei suoi satelliti come Art Basel Paris è esclusivamente loro e non possiamo certo dire che altre fiere che trattino opere d’arte del ventesimo e ventunesimo secolo mostrino la stessa vitalità. Solo alcune fiere di fotografia possono competere. 

Viviamo un «momento cerniera» del mercato dell’arte. Il periodo Covid-19 ha accelerato un ridimensionamento delle nostre scelte. Un certo esibizionismo spendaccione fa parte del passato. Il quadro da venti milioni di dollari da esibire agli amici inizia a rappresentare un comportamento datato. Dobbiamo aspettare la fine dell’anno per capire come si concluderà questo strano 2024. Sicuramente Art Basel, come ci ha abituato, ha anticipato questo momento incerto. Non  vorremmo rimetterci nei panni del solito «Cassandro», ma globalmente non si può negare la netta flessione dei beni di lusso. Il sistema moda non gode per niente di ottima salute. Alcuni brand vanno bene, come Lvmh, Prada e Chanel, ma il resto è in completo affanno. Il mercato del diamante è in piena ristrutturazione. L’immobiliare di lusso frena. Come le due grandi case d’aste e i mercanti: le più importanti trattano il mercato dell’arte non più come commercializzazione della creatività umana, ma come un segmento dei beni di lusso, nella stessa maniera d’una borsa Hermes o d’un orologio Rolex: è evidente quindi che anche il mercato dell’arte entra in un ciclo negativo. 

Gli attori principali del settore devono allontanarsi da questa «attrazione fatale». Un quadro può essere venduto per 20 milioni di dollari, non perché è un oggetto di lusso ma perché è la più alta espressione del genio umano. Non capirlo è come salire sul Titanic e affondare come tutti i beni d’un certo lusso che non interessano a nessuno e soprattutto alle nuove generazioni. Il grande enigma risiede qui. La generazione che ha decretato il successo (in questi ultimi vent’anni) delle aste del contemporaneo, annichilendo anche il mercato degli argenti, della porcellana e di altri manufatti (perchè sono beni incompatibili con la lavastoviglie), sembra non avere generato successori. È perciò fondamentale incoraggiare un approccio nuovo e dinamico al mercato dell’arte ai giovani

Il mercato della fotografia, del design o delle arti decorative del ’900 dovrebbe naturalmente interessare nuovi acquirenti. È la condizione essenziale per perdurare e non finire come le sale d’opera o di musica classica che piano piano, per assenza di pubblico, si stanno estinguendo.

«Sunflowers» (1990-91) di Joan Mitchell. Foto di David Owens

Bruno Muheim, 02 luglio 2024 | © Riproduzione riservata

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