In occasione del Notting Hill Carnival del 2022, Alvaro Barrington ha collaborato a diversi progetti, tra cui l’hosting e la progettazione di un palco con la galleria Emalin

Foto: Timothy Spurr. © Alvaro Barrington. Cortesia dell’artista e di Sadie Coles Hq

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In occasione del Notting Hill Carnival del 2022, Alvaro Barrington ha collaborato a diversi progetti, tra cui l’hosting e la progettazione di un palco con la galleria Emalin

Foto: Timothy Spurr. © Alvaro Barrington. Cortesia dell’artista e di Sadie Coles Hq

Alla Tate Britain il carnevale di Alvaro Barrington

Con un’ampia installazione che comprende dipinti, sculture, mobili e un paesaggio sonoro, l’artista venezuelano esplora l’impatto della colonizzazione britannica nel mondo

L’ascesa di Alvaro Barrington è stata rapida: nello stesso anno in cui si è laureato alla Slade School of Art di Londra, nel 2017, ha tenuto la sua prima mostra istituzionale al MoMA PS1 di New York. Da allora, ha presentato una personale di grande successo alla South London Gallery nel 2021 e ha collaborato con alcune delle principali gallerie del mondo, dove ha riscritto le regole di rappresentanza degli artisti intrattenendo rapporti continuativi e amichevolmente fluidi con circa otto diverse istituzioni in tutto il mondo.

Nato nel 1983 in Venezuela da padre haitiano e madre grenadina, Barrington è cresciuto nei Caraibi e a New York, e ora vive a Londra. L’impegno per la comunità è alla base della sua pratica multiforme, con collaborazioni artistiche che spaziano tra mostre, performance, concerti, carnevali e progetti di moda. Sebbene sia noto soprattutto come pittore, anche i materiali utilizzati da Barrington sono infinitamente vari e comprendono cemento, filati, tappeti, iuta, cartoline trovate, persiane in metallo e strumenti musicali. Questi materiali sono spesso utilizzati in combinazione per formare interi ambienti.

Barrington è l’ultimo artista che si è aggiudicato l’ambita commissione della Tate Britain alle Duveen Galleries, dove dal 29 maggio al 26 gennaio 2025 espone «Grace», un’installazione multimediale che comprende dipinti, sculture, mobili e un paesaggio sonoro, con un titolo che rende omaggio ad «Amazing Grace», un’opera del 1993 del suo ex insegnante e mentore Nari Ward (attualmente protagonista di un’ampia mostra al Pirelli HangarBicocca di Milano, Ndr).

Alvaro Barrington. Foto: Jai Monaghan. © Tate

Come ha pensato di affrontare le ampie Duveen Galleries in stile neoclassico che corrono al centro della Tate Britain? 
Come persona non inglese, ma che è la conseguenza della storia inglese e che ora vive qui, ho pensato che fosse una grande opportunità pensare a ciò che significava per me e a come vivo questa condizione, e inserirla negli spazi della Tate Britain. Credo sia la cosa più onesta che potessi fare. La storia che si sta svolgendo davanti a voi è il risultato di quella storia, buona e cattiva. C’è la cultura del carnevale, una delle cose più belle che credo sia accaduta, ma ci sono anche parti che riguardano la migrazione; molte persone della generazione Windrush (l’espressione Generazione Windrush indica i bambini arrivati in Gran Bretagna negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso dai Caraibi, dal nome della nave che li trasportò. Molti di loro non hanno mai preso la cittadinanza britannica, e così, pur avendo trascorso tutta la vita in Gran Bretagna, tecnicamente sono immigrati illegali, Ndr) e successive hanno dovuto lasciare la propria famiglia a casa. E la loro famiglia ha dovuto immaginare che cosa fosse successo al loro ritorno. Tutte queste sono conseguenze della presenza della Gran Bretagna nel mondo. E io ne sono un prodotto.

La sua risposta è intensamente personale: quasi metà dello spazio è occupato da un’installazione e da un paesaggio sonoro che evocano la sua prima infanzia a Grenada.
Abbiamo coperto un terzo delle South Duveens con un tetto di latta e abbiamo creato un paesaggio sonoro che proviene fondamentalmente dal ricordo che ho di quando vivevo con mia nonna a Grenada. Mia madre rimase incinta a 17 anni e mia nonna, come molte altre donne della mia comunità, mi prese con sé. Vivevamo in una piccolissima baracca in campagna ed era la cosa più felice e sicura che avessi mai provato. Ho il ricordo della pioggia che arrivava e io e i miei cugini correvamo in casa a giocare e la pioggia colpiva il tetto di lamiera. Così anche qui c’è il suono della pioggia che cade e ci sono alcune persone che creano musica: Andrew Hale, la Mangrove Steelband, Dev Hynes che è conosciuto anche come Blood Orange. E trasmettiamo in streaming la radio di Hackney Nts in momenti casuali. Su quattro strutture ci sono dipinti realizzati con fili di tessuto che sono un mix tra Kandinskij e Sonia Delaunay, quindi è come guardare fuori nel giardino mentre la pioggia si fonde con il suono e il colore. Poi ci si siede su questi dieci divani che ho progettato, con queste coperte in cui ci si può avvolgere e che hanno un significato narrativo diverso. La mia storia e quella di mia madre diventano un’unica storia.

Il divano e le coperte sono ricoperti di plastica trasparente. Perché?
Nel salotto di mia nonna i divani avevano questa protezione di plastica. Mia madre fu costretta a emigrare per varie ragioni e la nonna proteggeva questi mobili per quando mia madre sarebbe finalmente tornata a Grenada. Ho deciso di usare la plastica come forma del corpo di mia nonna, che tiene tutto dentro. Così voi siete tenuti in mano da mia nonna. 

Sembra che sia una questione di nutrimento.
La mia prima mostra con Sadie Coles Hq nel 2019 si intitolava «Garvey: Sex Love Nurturing Famalay». Per questo installazione voglio guardare a mia nonna e al lavoro invisibile che ha fatto per me. Il suo lavoro ha fatto sì che mia madre potesse essere un’adolescente. Ha potuto essere lei stessa una bambina, invece di essere una bambina di Brooklyn che cresce un altro bambino. Mia nonna ha anche protetto la mia capacità di diventare un artista; non è mai stato quello che lei immaginava, ma iniziando a lavorare da giovane, mi ha dato un futuro possibile. Voglio incarnare il suo lavoro piuttosto che rappresentarlo. Voglio che le persone si sentano protette, che sentano di essere me in questa casa.

Il resto della commissione Duveens è dedicato al carnevale.
Amo la cultura del carnevale e la seconda parte è come esservi gettati dentro. Ho realizzato 55 dipinti raffiguranti i diversi personaggi del carnevale (Jab Jab, Moko Jumbie sui suoi trampoli, Blue Devil) in una folla che si è costretti ad attraversare e aggirare. Nella rotonda Duveens c’è una scultura alta 3 metri di Samantha, mia sorella di 30 anni, che balla in Bikini Mas (il tipico costume carnevalesco caraibico, Ndr). Il Carnevale è uno degli unici luoghi pubblici in cui si può vedere una donna che balla in bikini; tutti sanno che questo è il suo spazio e non si può salire a ballare con lei. Lei balla per sé stessa. È una cosa meravigliosa che la comunità ha fatto per creare uno spazio pubblico per una donna, e a volte per un uomo, e così ho chiesto a Samantha se potevo prendere in prestito la sua immagine. Abbiamo discusso di ciò che rappresenta e di come realizzarlo. Era importante che la narrazione fosse corretta. Ho parlato con Samantha e con la comunità, e non si tratta di una donna nuda fatta da un uomo, ma del carnevale e di come la comunità ha creato uno spazio per lei. La verità della mia comunità è la nostra verità; è una prospettiva completamente diversa.

«Sound of the Islands, Disya» (2022) di Alvaro Barrington. Foto: Stephen James. © Alvaro Barrington. Cortesia dell’artista e di Emalin

È come se Samantha fosse la regina del carnevale, che emerge da un tamburo d’acciaio.
Ci si trova a due metri di distanza perché lei è in piedi proprio al centro di un tamburo d’acciaio; ho invitato il batterista statunitense Marcus Gilmore a suonare per lei. La stilista Jawara Alleyne ha disegnato il bikini e le gemelle Soull e Dynasty Ogun hanno realizzato un copricapo. L’ho dipinta come Phyllida Barlow dipingeva le sue opere; è come se fosse uscita dal carnevale mattutino di J’ouvert (una tradizionale celebrazione del Carnevale in molti paesi dei Caraibi, Ndr) per entrare direttamente nel Bikini Mas.

È la prima scultura figurativa che realizza?
Sì, è la mia versione della «Venere» di Botticelli. Una delle cose a cui pensavo era la storia di Venere, che in Grecia era Afrodite, ma prima, in Medio Oriente, in zone come l’Iraq, era Ishtar, la figura della madre guerriera. E ho pensato che ci fosse qualcosa di molto interessante nei corpi dei neri che vengono strappati alle loro madri in Africa e che diventano figlie della whiteness. Ma io sono cresciuto in un’epoca in cui la blackness non è figlia della whiteness. Siamo la nostra stessa madre. Abbiamo creato tanta cultura: la cultura hip hop, la cultura reggae, la moda... siamo stati gli ideatori e i creatori di tutte queste cose. La blackness è una cosa a sé stante. Crescendo, ci siamo divertiti tantissimo; eravamo i ragazzi più fighi del quartiere, cazzo!

Ho sempre pensato a lei come a un onnivoro della storia dell’arte. L’ho vista emozionarsi davanti a Tintoretto e Monet, e nella sua mostra del 2019, «Artists I Steal From» da Thaddaeus Ropac, tra i 48 artisti di ogni provenienza e generazione che ha incluso c’erano Louise Bourgeois, Willem de Kooning, Howard Hodgkin, Andy Warhol, Denzil Forrester, Lisa Brice e il suo insegnante all’Hunter College, Nari Ward.
Non ho mai visto l’arte come una storia bianca, ma come uno scambio di comunità. Ogni volta che Matisse andava a New York, frequentava i jazz club di Harlem. Mondrian amava il jazz. Picasso viene dal sud della Spagna, un tempo colonizzato dagli arabi, e se si guarda a molte delle sue scelte cromatiche, sono arabe. Le stampe giapponesi permisero a questi modernisti europei di realizzare un certo tipo di opere; fu uno scambio comunitario. Ovviamente, la dinamica del potere e di chi viene accreditato cambia. E poi magari si cancella il lavoro delle donne o di altre culture. Ma questa non era la verità di ciò che accadeva all’epoca.

Lei si è sempre definito un pittore, anche se alla Tate Britain e non solo i suoi dipinti sono accompagnati da sculture, installazioni, tessuti, oggetti recuperati e suoni.
Mi considero un pittore, ma penso anche che il dipinto debba essere parte integrante del progetto. Le persone vogliono che i dipinti sembrino reali, e il modo in cui questo è stato fatto attraverso la tecnologia digitale è stato davvero scadente. Credo nel dipinto come oggetto fisico, credo nello spazio fisico, credo nella comunità dello spazio fisico. La maggior parte della narrazione culturale non è il modo in cui la pittura è interessante nella nostra vita. Quindi forse devo cercare di spingere la pittura a diventare di nuovo un po’ più partecipativa. E questo significa mettere il mio lavoro su un carro di carnevale o su un palco musicale, così come in una galleria o in un’istituzione o in un pop-up da qualche parte sulla spiaggia, ovunque. Deve essere in grado di adattarsi agli spazi.

Il suo credo nella comunità sembra estendersi alla collaborazione con un certo numero di gallerie, otto secondo l’ultimo conteggio. Perché così tante?
Sono orfano. Ho avuto molte donne che mi hanno cresciuto e i loro figli sono diventati miei cugini, e mi piaceva poter viaggiare in diversi quartieri ed essere accolto, perché le amiche di mia madre dicevano: «Ora sei mio figlio». A quel tempo New York era un po’ come il film «I guerrieri della notte» (1979): passare da un quartiere all’altro significava essere spesso picchiati. Ma avere tutti questi familiari che mi hanno adottato mi ha dato un passaporto per muovermi in città in un modo che agli altri non era concesso. La cosa meravigliosa delle gallerie è che ognuna di esse è per me un passaporto per capire gli artisti che amano, i collezionisti e le istituzioni che sono importanti per loro. Perché dovrei dire di no a tutto questo? 

Louisa Buck, 29 maggio 2024 | © Riproduzione riservata

Alla Tate Britain il carnevale di Alvaro Barrington | Louisa Buck

Alla Tate Britain il carnevale di Alvaro Barrington | Louisa Buck