David Ekserdjian
Leggi i suoi articoliEssere artista è un mestiere per la vita, che non viene premiato ogni quattro anni con medaglie d’oro come nei giochi olimpici. Comunque sia, per molte persone Frank Auerbach (Berlino, 1931), è il pittore britannico vivente più importante. I suoi unici rivali seri sarebbero Bridget Riley, nata cinque giorni prima di lui (hanno studiato insieme più di settant’anni fa), e un giovanotto (tutto è relativo) di nome David Hockney, che di anni ne ha solo 86.
Ancora oggi Auerbach è molto attivo, fedele alla routine che segue da decenni: è noto, infatti, per il coinvolgimento di un numero molto limitato di persone che posano per ore, ogni settimana, nel corso degli anni (esistono anche paesaggi urbani di sua mano, ma sono meno numerosi, e forse meno significativi). Questi individui sono, senza eccezioni, membri della sua famiglia o strettissimi amici, che si impegnano nel dedicare una parte notevole delle loro esistenze a Auerbach, non solo perché lo stimano e lo amano come persona, ma anche perché venerano la sua arte. Come viene dimostrato nell’avvincente mostra alla Courtauld Gallery dal titolo «Frank Auerbach: teste a carboncino» (fino al 27 maggio).
Auerbach nacque a Berlino il 29 aprile 1931, ma nel 1939, quando aveva ancora sette anni, suo padre e sua madre organizzarono il suo trasferimento nel Regno Unito con l’aiuto della scrittrice Iris Origo. Durante la guerra aveva frequentato la scuola privata Bunce Court, sempre in campagna, prima nel Kent e poi nello Shropshire. Fu un collegio molto particolare, dove gran parte degli studenti, così come dei professori, erano dei rifugiati dal nazismo, in compagnia con allievi del luogo e docenti inglesi obiettori di coscienza. Nel 1943 veniva a sapere della morte dei suoi genitori in un campo di concentramento.
Arrivato a Londra nel 1947, inizia a lavorare come attore (non rinunciandovi per alcuni anni), ma già l’anno seguente risulta iscritto al poco noto Borough Polytechnic Institute, dove uno dei professori di pittura era il grande David Bomberg (1890-1957), i cui corsi serali ha continuato a seguire anche dopo il suo trasferimento prima alla St. Martin’s School of Art e dopo alla Royal College of Art, dove ha conosciuto, tra gli altri, l’illustre pittore Leon Kossoff (1926-2019) e dov’è rimasto fino al 1955.
Dall’anno prima aveva già preso uno studio a Mornington Crescent in Camden Town, dove ha sempre lavorato, e dal 1956 al 1962 ha eseguito varie serie di teste di un numero ristrettissimo di soggetti. Due sono le donne con cui ha condiviso la sua vita: Stella West (1916-2014), che compare sempre nei titoli delle sue opere con l’abbreviazione E.O.W., e Julia (1933), moglie e madre di suo figlio Jake. Altre due erano una cugina più anziana, Gerda Boehm (1907-2006), e l’unica persona che non conosceva bene sin dall’inizio, Helen Gillespie, amica di West. Gli unici uomini in compagnia di queste quattro donne furono Kossoff e lui stesso (ci sono due disegni autoritratti in mostra). «Testa di» è la formula preferita di Auerbach, perché per lui «una cosa che rassomiglia a un “ritratto”, non rassomiglia a una persona».
Ora la grande maggioranza di questi 26 disegni e dipinti, molti da collezioni private, vengono trionfalmente riuniti nella mostra alla Courtauld, dando al visitatore la possibilità non solo di contemplare senza fretta le singole opere, ma soprattutto di confrontare le variazioni sul tema di questi sei soggetti. Nel caso dei disegni, per i quali utilizzava fogli di grandi dimensioni (76,2x55,9 cm), rifaceva lo stesso disegno innumerevoli volte, cancellando e ricominciando da capo, talvolta arrivando a rompere la carta. Costretto a inserire nuovi pezzettini, a un certo punto cominciò a disegnare sin dall’inizio su una base di due fogli, uno sopra l’altro. In due casi, esistono fotografie di disegni durante il procedimento creativo, probabilmente perché il pittore li considerava compiuti prima di cambiare idea dopo, e recentemente Auerbach ha descritto questi stadi intermedi non come primi pensieri, ma come «disegni distrutti».
Il titolo della mostra si riferisce esclusivamente ai disegni, anche se in un certo senso sono i sei dipinti ad affascinare ancora di più. Data la tecnica a olio su tela, ogni ripensamento veniva applicato sopra lo strato anteriore, e quindi il colore arrivava a uno spessore di tre o quattro centimetri. Come fu osservato da vari critici già negli anni ’50, questi quadri assomigliano a dei rilievi scultorei. Quando vengono riprodotti in fotografie, si perde quasi tutto l’effetto e purtroppo, almeno per chi scrive, non è possibile evocare a parole il loro incanto. A parte gli autoritratti, quasi tutte queste teste volgono lo sguardo a destra o a sinistra, e spesso verso il basso.
Auerbach sostiene che sono stati i soggetti a scegliere la loro posa, ma almeno in uno dei disegni di Gerda Boehm pare evidente un ricordo, senz’altro inconscio, della testa di sant’Anna nel cartone di Leonardo da Vinci, oggi alla National Gallery, ma all’epoca di proprietà della Royal Academy a Burlington House. Stranamente, quando ho visto per la prima volta questi dipinti incrostati in una mostra alla Hayward Gallery a Londra nel lontano 1978, ricordo che li ho quasi odiati, senza capire il perché. Ora mi sembrano tra le sue realizzazioni più rimarchevoli e mi sento come san Gregorio Magno nel Canto XXVIII del Paradiso, che, secondo Dante, «di sé medesmo rise». Essendo ottimista di natura, mi consola quindi riflettere che non tutto peggiora con l’età.
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