Lutz Bacher (1943-2019) era un’artista reticente. Protetta dalla corazza di uno pseudonimo, non rivelò mai troppo della sua vita privata. Cominciò a fare arte a San Francisco negli anni Settanta, quando il Concettualismo prendeva il posto del Minimalismo. Era sposata a un astrofisico, Donald C. Backer. Insegnava alla Ucla di Los Angeles. Sono queste le uniche informazioni che conosciamo sulla sua formazione e biografia. Negli anni Novanta, nel tentativo di produrre un autoritratto, Bacher chiese a familiari e artisti (amici e non) di sedersi di fronte alla macchina da presa e parlare di lei. Ore di filmati, poi trascritti in un libro, che non offrono altro che un’idea nebulosa e contradditoria della sua identità di donna e artista.
La personale che lo spazio non profit Raven Row (appena riaperto al pubblico dopo uno iato di cinque anni) dedica a Bacher (fino al 17 dicembre) sembra riflettere l’elusività e la discrezione di un’artista la cui pratica si destreggia con eleganza tra poesia, crudezza e ironia. Al piano terra dell’edificio, un ex complesso commerciale per la vendita della seta nella Londra del XVIII secolo, ci accoglie un’ampia distesa di sabbia. Su di essa riposano quattro monitor senza immagini, da cui risuonano le note di un pianoforte e il breve dialogo tra un uomo e una donna: «What are you thinking?» domanda lei; «I’m thinking how happy I am», risponde lui. È l’audio estrapolato da una scena dell’«Insostenibile leggerezza dell’essere», il film di Philip Kaufman del 1988, che accarezza il visitatore, proiettandolo in un idillio romantico, ma lo disorienta al tempo stesso per via di una lacuna visiva e di senso: a chi appartengono queste voci? Che cosa significano? Frammenti di un discorso amoroso che, a dispetto di Barthes, non rimandano ad alcuna logica o universo di significato.
È una mostra fatta di stanze chiuse, ciascuna delle quali custodisce un’atmosfera. Per percorrerla è necessario aprire e chiudere porte: vi è una dimensione intima, domestica. Forse un’ulteriore allusione alla reticenza di Bacher, per cui un’opera d’arte è uno scrigno da aprire e scoprire, in cui immergersi e affondare, chiudendosi la porta alle spalle.
Se la sabbia di «The Book of Sand» (2011-12) fa da prologo alla narrazione espositiva, «Empire» (2014) introduce l’azione. Riprese fuori fuoco dell’Empire State Building sono proiettate su una serie di pannelli in plexiglass, tenuti in piedi da sacchi di sabbia. In sottofondo un boato minaccioso, allusione a una tempesta oppure agli ingranaggi ferrosi di New York, la metropoli che non dorme mai, e la cui iconica immagine, il grattacielo Art déco, oscilla pericolosamente, spezzandosi in un magico gioco di riflessi e riverberi.
La musica accomuna molti dei lavori in mostra. Bacher è in grado di plasmare note e suoni come soffici sculture. Se ne serve per generare atmosfere di limbo, prive di significati o simbologie, in cui gli input sonori si traducono in pure emozioni e stati d’animo, spesso sfuggenti, indefinibili. «Yamaha» (2010) è un vecchio organo che suona da solo, attraverso l’azione computerizzata di «dita» meccaniche. La musica che produce è goffa, sgraziata; l’effetto finale ha un non so che di sinistro, enfatizzato dalle enormi canne arrugginite che lo sormontano, come missili caduti dal cielo.
La qualità scultorea della musica si fa sempre più evidente al primo piano. Apriamo una porta e ci troviamo in una stanza buia: un’apparizione sui toni dell’indaco, come in un sogno alla David Lynch. «Please (Lc)» (2013-15) è il loop di una singola parola cantata da Leonard Cohen nel corso di una sua performance; una preghiera cristallizzata in una manciata di fonemi: «Please», per favore. La proiezione video scivola da un muro all’altro, scompare per poi ricomparire, cullandoci alle note di una nenia che sembra quasi un incantesimo. Il volto del cantante canadese, lo stregone armato di microfono, appare tra le pieghe di una tenda blu, ripetutamente: ne restiamo ammaliati e confusi, come intrappolati (per volontà nostra) in un purgatorio fuori dal tempo e dallo spazio. La canzone qui è ridotta a un unico frammento, che Bacher ripresenta e ricombina più e più volte. La ripetizione e lo scorrere nell’ambiente del medesimo accordo trasformano la stanza in una sorta di scultura sonora.
Nell’ambiente successivo si erge una montagna di spicchi triangolari di gomma, materiale utilizzato per l’isolamento acustico di muri e pareti. Il suono, intrappolato nella materia, dà forma a una scultura muta, dall’aspetto buffo e surreale («Magic Mountain», 2015). Ad accentuarne la natura grottesca è il gruppo di piccole sculture in gesso che punteggiano il pavimento della stanza successiva: calchi di colli di cavalli, che assomigliano a teste di strambe creature animali o a frammenti anatomici non identificati («Horses», 2008).
All’ultimo piano, una serie di radio si materializzano nello spazio, abitandolo con discrezione. Sembrano trasmettere la medesima melodia, ma leggermente fuori sincrono. Di nuovo una canzone: pochi secondi di «Killing Me Softly with His Song», nella versione cantata da Roberta Flack. Bacher, per questo lavoro («Kms», 2016), aveva creato un apposito segnale radio pirata, a cui i trasmettitori potevano collegarsi in tempo reale. L’estratto che l’artista ha selezionato e riproposto in loop è un momento di transizione, in cui le parole della canzone si diluiscono nell’ohh-oh-ohh-oh della voce di Flack. Come scrive Anthony Huberman, curatore della mostra, «Qui la voce non sbaglia, non tradisce imperfezioni; semmai è pre-verbale, avviluppata in un etereo momento di loop prima che si trasformi in discorso. Una canzone priva di parole». È così che Bacher ci re-immerge in un nuovo limbo, un ciclo melodico in cui l’assenza del linguaggio ci accarezza, facendoci dimenticare strutture di senso, significati, sistemi di interpretazione. Ci abbandoniamo a queste note come a una dolce ninna nanna, potenzialmente infinita. Basta solo un gesto per spezzare l’incantesimo: riaprire la porta.