Da «I segreti di Twin Peaks» (1990-91) di David Lynch e Mark Frost, da sinistra Kyle MacLachlan e Michael Ontkean

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Da «I segreti di Twin Peaks» (1990-91) di David Lynch e Mark Frost, da sinistra Kyle MacLachlan e Michael Ontkean

Al Museo del Cinema le serie che generano dipendenza

Il linguaggio innovativo di un format tv che ha cambiato il cinema in un allestimento a cura di Luca Beatrice e Luigi Mascheroni. Al museo torinese anche una mostra di oggetti di scena dai set di Hollywood

Nelle vecchie televisioni col tubo catodico si chiamavano telefilm. Appuntamento fisso: stesso canale, stessi giorni, stessa ora. Vedere tutte le puntate era raro quanto completare un album di figurine, quasi impossibile, anche se programmare il Vhs veniva in aiuto. Linguaggio da boomer. Forse. Perché la storia delle serie tv è vecchia quasi quanto quella della televisione. La vera rivoluzione l’ha fatta lo streaming, dando la possibilità a ciascuno di crearsi il proprio palinsesto, guardare e riguardare come e quanto gli pare e piace ogni singola stagione, puntata o fotogramma su qualsiasi device connesso a internet. Unica controindicazione: scegliere serie tv ancora in produzione. E così la dilatazione della serie tv, capace di sintetizzare la complessità narrativa del romanzo con la condensazione filmica, ha finito per influire profondamente sull’evoluzione del linguaggio cinematografico, di cui è diventata un’estensione sempre più frequentata anche dai divi del grande schermo. 

A dedicare al tema la prima mostra italiana è il Museo del Cinema, che fino al 24 febbraio propone «#Serialmania. Immaginari narrativi da Twin Peaks a Squid Game», a cura di Luca Beatrice e Luigi Mascheroni. «Questo nuovo modo di produrre immagini si rapporta con il tessuto sociale del nostro tempo, dialogando con l’estetica contemporanea, in particolare con le arti visive», spiegano i curatori. Un dialogo ripercorso con immagini e spezzoni di dodici titoli a partire dalle serie cult degli anni Novanta come «Twin Peaks», inquietante e surreale thriller psicologico nato dal genio di David Lynch e Mark Frost, capace di evocare le teatrali atmosfere della staged photography delle periferie americane di Gregory Crewdson, o l’esilarante sitcom «Friends», con le ironiche vicende di sei trentenni amici e coinquilini nella Manhattan di fine millennio. Un percorso espositivo che attraversa epoche, generi e latitudini, includendo «The Crown» (2016-23) la serie storica statunitense dedicata al lungo regno della regina Elisabetta d’Inghilterra, «Squid Game», la serie più vista di Netflix, sudcoreana, ispirata ad alcuni manga come «Battle Royale» di Koushun Takami e «Liar Game» di Shinobu Kaitani, che coinvolge 456 persone in un’agghiacciante challenge composta da una serie di semplici giochi infantili nei quali si vince sopravvivendo e si perde morendo brutalmente. E non manca l’intramontabile serie dei Simpson, parodia satirica della società americana ideata dal fumettista statunitense Matt Groening nel 1987 e tutt’oggi in produzione. 

Fino al 13 gennaio c’è inoltre la grande mostra «Movie Icons. Oggetti dai set di Hollywood», la selezione di 120 props (oggetti di scena originali), dalla spada laser di Luke Skywalker alla scopa di Harry Potter, dal cappello di Jack Sparrow all’unico costume completo esistente di Superman indossato da Christopher Reeve nel 1977, rari cimeli preziosi come opere d’arte e venerati come reliquie, attraverso cui il Museo Nazionale del Cinema, e il direttore Domenico De Gaetano, raccontano quarant’anni di Hollywood. Due mostre, due facce della stessa medaglia, perché, come ricordano Mascheroni e Beatrice, se «il cinema fabbrica sogni, le serie Tv generano dipendenza».

Jenny Dogliani, 23 ottobre 2024 | © Riproduzione riservata

Al Museo del Cinema le serie che generano dipendenza | Jenny Dogliani

Al Museo del Cinema le serie che generano dipendenza | Jenny Dogliani