Flaminio Gualdoni
Leggi i suoi articoliE pensare che Giovanni Spadolini, inventandosi il Ministero dei Beni culturali, sognava di farne «la Repubblica dei saggi». Sarà accademico dei Lincei, per dire: ma da allora prese avvio un piano inclinato che ha reso la titolarità dei Beni culturali una medaglietta di second’ordine, un’offa da elargire a personaggi di secondo e terzo piano.
Stiamo parlando del 1974, cioè di un paio di ere geologiche fa. Tutto ruotava intorno alla Democrazia Cristiana. A fare ministro Spadolini fu Aldo Moro, per dire di nuovo, ma quando la sua esperienza fece capire che si poteva farne un Ministero importante, subito i democristiani se ne appropriarono per far spazio ai propri luogotenenti e poi agli alleati minori: addirittura nel 1979 lo assegnarono a Egidio Ariosto, socialdemocratico bresciano che inaugurò il lungo feudo del suo partito sulle sorti della cultura nostrana. Almeno Ariosto era laureato, un vago alibi lo dava. Poco dopo arrivarono i cacicchi e i capibastone: brillarono, dall’inizio degli anni Ottanta, i democristiani Vincenzo Scotti (detassare le collezioni) e Antonino Gullotti. Di Gullotti ho un ricordo diretto, perché fu il primo ministro che conobbi di persona.
Ero a Spoleto il giorno che la Rocca Albornoziana, dopo essere stata a lungo usata come carcere, passò ai Beni culturali. Il ministro ex Partecipazioni statali (poi anche della Sanità e delle Poste e Telecomunicazioni) era presente, si capisce, ma passò tutto il tempo a chiacchierare con un sodale di partito, ché della rocca trecentesca e di Albornoz non sapeva nulla e non gli importava nulla. Vennero poi socialdemocratici a modo loro memorabili, la professoressa di liceo di Alcamo Vincenza Bono Parrino, di cui si ricorda soltanto che non riusciva a pronunciare la parola «borsetta» e dalle sue labbra usciva un popolano «borzetta», e l’avvocato di Ceppaloni Ferdinando Facchiano, scomparso dalle scene con la rapidità di una meteora («Ah, Poussin! Ho visto il museo a Mosca. Non lo conosce, professor Sciolla? Dovreste studiare un po’ meno e viaggiare di più, voi storici dell’arte»). E Nicola Vernola al collega francese: «Segga sulla poltronne, messieux Ambasciatur».
A questo punto, pareva il caso di ridare energia a un ruolo già logoro oltre i limiti. Nel 1992 Giuliano Amato e poi Carlo Azeglio Ciampi scelgono per il ruolo Alberto Ronchey, giornalista di vaglia e, pare incredibile, indipendente. La «legge Ronchey» (poi rinnegata una volta arrivato alla presidenza della Rizzoli) è stata il primo tentativo di far funzionare il Ministero come una centrale produttrice di autofinanziamenti, ma portava in seno un rischio, allora non avvertibile: quello di considerare intellettuale un giornalista comunque, a prescindere: era stato così per Spadolini, è stato così per Ronchey, ma non era una regola assoluta. Dopo la parentesi brevissima di un altro indipendente, il grande Antonio Paolucci, che il governo Dini nominò nel 1995, con Prodi entra in scena un giornalista, senza laurea ma con lungimiranti visioni politiche, Walter Veltroni che forse è colui che lo ha più considerato avendo voluto affiancarlo al suo ruolo di vice primo ministro, e la faccenda diventa, nuovamente, un affaire di partito. Nel 1998 il piano inclinato discendente subisce un’accelerazione, incarnata da gente talora saccente più che sapiente: subentrano Giovanna Melandri, poi Giuliano Urbani, poi Rocco Buttiglione, poi Francesco Rutelli. Con Buttiglione, devo dire, ha inizio anche l’epoca dei ministri vagamente ridicoli, generatori di un’aneddotica che rende indispensabile la lettura del sito Dagospia più che dei quotidiani seriosi, e di una logica di scelte che riguarda meno le appartenenze politiche e più il ruolo di famigli del capo di governo di turno.
I governi Berlusconi vedono nel 2008 l’ascesa prima di Sandro Bondi, poi di Giancarlo Galan, in seguito associato alle patrie galere. Siamo alla frutta, ormai. La questione è che non si tratta più di ministri deboli in Governi con almeno un tentativo di anima, ma di Governi senz’anima, dove le nomine paiono casuali, frutto al più dell’«amichettismo» coniato da Fulvio Abbate che di un qualche genere di consapevolezza. L’amichettismo e il suo sottogenere più pervasivo, il familismo, sono la stella polare (!) che porta alle scelte di Massimo Bray, direttore Treccani che almeno sa leggere e scrivere, e Dario Franceschini, che scrive anche narrativa senza che si senta la tentazione di leggerla, ma che si erge a paladino di scelte culturali e grandi piani tal vez stravaganti.
I casi più recenti sono figli della bussola esplosa e improvvisata di Giorgia Meloni, e sono giornalisti non secondo l’antica misura di valore che volle Spadolini e Ronchey, ma secondo una nuova sensibilità che premia una fedeltà che si vorrebbe, per citare Giovannino Guareschi, «cieca pronta assoluta», a prescindere dalla mancanza di una qualsivoglia laurea in una qualsivoglia materia: Gennaro Sangiuliano, sferica incarnazione di un uomo (il ministro Essecorta incline ad affermazioni scherzose) senza tragedia (Dostoevskij ci perdoni), e Alessandro Giuli, dai modi urbani e ammodo, lui pure giornalista senza strappi di vaglia.
Avevamo cominciato con Spadolini: dopo, molti non li avrebbe voluti neppure come tirapiedi.
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