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Una panoramica di Torino scattata dal nuovo Quadrato. Foto di Piero Ottaviano

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Una panoramica di Torino scattata dal nuovo Quadrato. Foto di Piero Ottaviano

A Torino non serve vendersi l’anima

È giusto sacrificare l’identità di un luogo in virtù di una strategia divulgativa e manageriale?

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Franco Fanelli

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A chi gioverebbe la milanesizzazione di Torino? La politica si muove con pochi soldi, poche idee e poco coraggio. Le istituzioni rischiano di appiattirsi su modelli dominanti. La città è in declino, ma i suoi successi indicano la strada. 

L’autolesionismo dei torinesi, come tutti i luoghi comuni, è radicato in una buona dose di verità. A volte, più che farsi del male, a Torino si fanno male alcune cose, credendo di farle benissimo. Così la più bella notizia dell’anno è diventa quasi una metafora dei problemi d’identità del capoluogo. 21 anni dopo l’incendio che la devastò, sono terminati i restauri, particolarmente impegnativi e delicati, della Cappella della Sindone di Guarino Guarini. Dire che è stata riaperta al pubblico è una mezza verità: nel nome manageriale della bigliettazione dei Musei Reali (ex Polo Reale), essa è accessibile da Palazzo Reale, fulcro del predetto Polo. Questa «polarizzazione» ha determinato l’amputazione dell’architettura guariniana, privando il pubblico dell’accesso dal Duomo dalla doppia scalinata, che nel concetto di Guarini avrebbe condotto i fedeli e i semplici visitatori in un percorso spirituale, simbolico ed esistenziale dalla tenebra alla luce: un «andar salendo entro terra», sottolineato da Andreina Griseri in Le metamorfosi del Barocco (1967). «Se ne esce allucinati alla luce della cupola, non liberati», aggiungeva la studiosa.

Eh no! Caro Guarini, se oltre a inceppare la «polarizzazione» manageriale e dei musei ti metti anche ad angosciare il visitatore, tanto vale, quelle mirabili rampe, tagliarle via. Devono aver pensato questo gli attuali gestori dei capolavori torinesi. Ma quale ascesa mistica: si offra piuttosto al pubblico, nella sera della riapertura, un’illuminazione che ha umiliato l’esterno della cupola trasformandola in una pagoda da ristorante indiano, per non dire peggio. Paolo Portoghesi, non l’ultimo arrivato, ha alzato il sopracciglio. Ovviamente è stato ignorato, perché nella mente degli attuali depositari della museografia evidentemente la Cappella della Sindone è una roba tipo il Topkapi di Istanbul, un gioiello della corona attizzaturisti. Guido Ceronetti, torinese eretico, si sarebbe prodotto in una delle sue invettive, ma ha avuto la fortuna di morire pochi giorni prima. Certo è che anche un concetto di musealizzazione inteso storicamente come fruibilità pubblica di beni privati in questo caso è parzialmente tradito, nella misura in cui è parziale la fruizione del bene in questione. La Cupola è stata privata della sua anima e in fondo è questo il succo della metafora contenuta nella sua riapertura: sino a che punto le città italiane possono permettersi di vendersela (l’anima) parzialmente o totalmente, sopprimendo lo spirito del luogo nella discarica del turismo culturale?

Torino, a volte, sembra faccia di tutto per appiattirsi su modelli, schemi e burocrazie dominanti: sapevate, ad esempio, che per organizzare una manifestazione culturale a Villa della Regina, la Regione Piemonte deve pagare l’affitto al Ministero per i Beni Culturali? Quanto agli schemi imposti dalla nuova politica della valorizzazione e della fruizione, occorrerebbe riflettere con attenzione se e quanto è davvero necessario puntare tutto su una strategia divulgativa e manageriale che mette a rischio, oltre alle scale del Guarini, l’identità stessa dei luoghi e della città, insieme al significato più profondo dei suoi tesori.

Molto opportunamente la Collezione Cerruti è rimasta a casa sua, a Rivoli: fa bene alla biglietteria di un museo d’arte contemporanea ma anche alla conoscenza, da parte del pubblico, dell’identità più intima di un collezionista di capolavori. Al contrario, e al di là di problemi di altro tipo, forse è un bene che sia naufragata la monodirezione di Rivoli e Gam: speriamo che questo convinca la Fondazione Torino Musei a investire sul «carattere» di un museo senza più viverne l’anima ottocentista come un fardello (ben vengano, dunque, i Macchiaioli) e su un’idea di «moderno» non obbligatoriamente diluito con il contemporaneo. Altrettanto onestamente bisognerebbe ammettere che non è quello il museo più adatto per dare spazio ai giovani artisti torinesi, un versante che peraltro continua a rivelarsi generoso ancorché mortificato, almeno per quanto riguarda il circuito «ufficiale», dalla crisi delle gallerie: Alberto Peola faceva notare come nel 2016 le partecipanti alla tradizionale «notte bianca» di apertura della stagione erano in 23, ridotte oggi a 12. Il circuito underground, dalla Cavallerizza a San Salvario, è invece perfettamente accasato, e la Street art, i collettivi e gli spazi indipendenti stanno diventando un’eccellenza torinese: abbiamo anche il Banksy de noantri, Andrea Villa, fustigatore dei politici e della xenofobia.

A proposito di politica, la maggioranza pentastellata che governa Torino era chiamata a una verifica di medio termine circa il suo rapporto con la cultura; ma va detto che la situazione economica del Paese non consentirebbe un bilancio reale. Soldi ce ne sono pochi, per tutti. Continuano però a mancare le idee e il coraggio: lo lamentano anche gli architetti, che guardano umiliati alla crescita verticale di Milano. Ma anche in questo caso sarebbe opportuno verificare se, quanto e a chi (a Torino o a Milano?) la vagheggiata milanesizzazione di Torino porterebbe dei frutti. Teniamoci intanto la neonata Nuvola Lavazza e diciamo piuttosto che la lamentazione di cui sono maestri i politici, secondo la quale la colpa è sempre di chi c’era prima, non ha ragion d’essere per quanto riguarda la cultura a Torino.

L’indecisa a tutto Appendino e la sua assessora Leon hanno ereditato, sotto questo profilo, una città effervescente sul versante del moderno e del contemporaneo, con due grandi fiere, Artissima e la più giovane Flashback, che hanno ispirato la crescita collaterale di rassegne satelliti o alternative. Ma si sono trovate anche un Museo Egizio nuovo di zecca e una Galleria Sabauda non più confinata ai piani alti del Collegio dei Nobili. Difficile, obiettivamente, fare di meglio e avere di più, ma l’ordinaria manutenzione è quasi sempre l’inizio del declino.

Lo sa bene Ilaria Bonacossa, che si è rivelata la scelta migliore per la difficile successione a Sarah Cosulich alla guida di Artissima. Qual è il segreto del suo successo? L’aver saputo coinvolgere soggetti privati in ogni ambito, dall’industria allo sport. In questo modo può celebrare al meglio il 25mo anniversario della fiera. Che cosa ha fatto la Bonacossa? Ha capito che tra Frieze e una fieretta sabaudopopolare c’è una via di mezzo, la stessa che c’è tra un curatore e un manager. Così sta facendo il direttore di una fiera, anzi di Artissima, che è una fiera molto speciale e molto torinese nonostante la sua apertura internazionale: cerca sponsor e partner, accetta un pizzico di ecumenismo in più nelle proposte negli stand, inventa sezioni non cervellotiche e anzi accessibili (quest’anno l’arte sonora alle Ogr). E ancora: sta rafforzando il marchio Artissima, facendo di prestigio e competenza virtù come produttrice di eventi. E intanto la fiera porta soldi alla città: 3,7 milioni di euro il valore generato e, per ogni euro pubblico investito ne genera 24 di impatto sul territorio.

Infine, non ha il complesso di Milano. È la dimostrazione di quanto sia fondamentale conservare lo spirito di un luogo, di un’idea, di un progetto, migliorandolo senza stravolgerlo. Alla lunga è una strategia che paga, a patto di avere idee, proprio quelle che non si intravvedono nelle strategie culturali della politica ma anche tra i vertici istituzionali. La città è in declino (né gioverà la mancata riedizione delle Olimpiadi invernali). Ma ora più che mai, sguardo avanti e piedi per terra: l’art week torinese funziona, ma per semestralizzarla, come vorrebbe Fulvio Gianaria, presidente della Società Ogr-Crt, occorrerebbe raddoppiare anche Artissima (cosa obiettivamente impossibile), perché senza quel traino il rischio flop sarebbe incombente.

Meglio continuare a proporre alle stesse Ogr, vera sorpresa in positivo dell’anno, una programmazione a misura di una città vocazionalmente internazionale e proprio per questo capace di evitare il provincialismo della castrante ed esosa tirannia delle mode. Nell’anno di Guarini vengono in mente le parole di uno scrittore, Valdo Fusi, che nella sua bella guida Torino un po’, spiegava il carattere di due geni torinesi d’adozione: «Fosse vivo Juvarra, presidente del Rotary l’avrebbero eletto. Guarini, non si sarebbe iscritto neppure agli “Amici di Guarini”». Ecco, un giusto cocktail tra lo juvarrismo e il guarinismo sarebbe la ricetta migliore per il presente e la futuribilità di Torino.
 

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Franco Fanelli, 31 ottobre 2018 | © Riproduzione riservata

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