Camilla Bertoni
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Con la (coraggiosa) nascita della Fondazione Bonollo a Thiene, in provincia di Vicenza, sono almeno due gli obiettivi raggiunti: il recupero di uno spazio storico, restaurato e restituito alla comunità, e la condivisione di una collezione di arte contemporanea con il pubblico. Il tutto in una cittadina che vanta un record negativo di presenze museali, se si esclude l’omonimo Castello, privato, ma visitabile.
Sandra e il marito imprenditore Giancarlo Bonollo, che da 25 anni raccolgono nella loro abitazione opere d’arte contemporanea, hanno deciso di rendere la collezione visibile al pubblico e per questo hanno chiesto di utilizzare il complesso settecentesco del Collegio e della ex Chiesa delle Dimesse di origini seicentesche, un tempo orfanotrofio, poi sede della locale Usl, infine abbandonato da una decina di anni. Dopo un restauro sostenuto dalla neonata Fondazione e diretto dall’architetto Giancarlo Zerbato, il Comune di Thiene ha concesso in uso gli spazi (per un periodo iniziale di nove anni) per la collocazione a rotazione delle opere, circa 600, della collezione Bonollo. Ora una piccola selezione compone quel «Lessico famigliare» che dà il titolo alla mostra collettiva (la prima di una serie) allestita a cura di Chiara Nuzzi (fino al 21 dicembre) per l’inaugurazione della sede che nelle intenzioni dei collezionisti dovrebbe diventare anche un centro di ricerca grazie ai novecento volumi e riviste specializzate e rare, che la coppia vorrebbe catalogare e mettere qui a disposizione.
Il lessico famigliare è quello che racconta una delle opere scelte, il dipinto di Patrizio Di Massimo (Jesi, 1983) intitolato «How Many Times I Have to Tell You This Ah?», ironica messa in scena di vita quotidiana. Ma in realtà non sembra esserci un lessico codificato come filo conduttore alla raccolta, nutrita piuttosto da un desiderio di dar voce alla ricerca dove i linguaggi si moltiplicano e differenziano, passando dal realismo di Di Massimo segnato da ritratti e citazioni dell’arte del passato, all’iper-realismo quasi metafisico dei cuscini dipinti da Ed Atkins (Oxford, 1982) durante la pandemia. «Uno strumento, scrive Chiara Nuzzi, per esplorare il modo in cui la rappresentazione e l’artificio si intersecano con la realtà, preoccupazioni che attraversano tutta la pratica dell’artista». Dal video nella complessa composizione di Neïl Beloufa, all’inquietante installazione sonora di Cally Spooner (Regno Unito, 1983) si fa strada una percezione poco fiduciosa, distopica, verso il contesto attuale, come nel lavoro di Louisa Gagliardi (Zurigo, 1989) o quando si fa riferimento a esperienze (forse anche personali) come quelle della maternità nelle opere di Cathy Wilkes (Belfast, 1966) e Frida Orupabo (Norvegia, 1986). Ciò che resta degli abitanti di Venezia emerge dall’operazione con cui già nel 2013 Paweł Althamer (Varsavia, 1967), ha realizzato i calchi di alcuni volti e mani di veneziani per comporre con essi delle sculture scheletriche realizzate con pezzi di recupero. L’australiana Tracey Moffatt (Brisbane, 1960) lavora fotograficamente sui corpi femminili e sul tema della violenza che intreccia il processo di autodefinizione femminile. Più sottile, meno diretto, anzi traslato su un piano ermeneutico, è il lavoro del duo artistico Claire Fontaine, fondato a Parigi nel 2004 e di stanza a Palermo, protagonista, a partire dal titolo, alla Biennale di Venezia in corso: «Taccuini di Guerra Incivile», esposto nel 2007 a Roma, è composto da «brickbat» («mattoni da combattimento»), rivestiti di copertine di libri. Privati del loro contenuto, forse i libri riescono a trasferirlo nei mattoni: nell’opera si connettono così due forme di resistenza, quella violenta che sembra sublimarsi in quella letteraria.
Ma ad accogliere i visitatori nella cappella è una grande «Pala», opera di Isabella Ducrot, sospesa dal soffitto calando imponente davanti all’altare originario della chiesa. Ispirata alle decorazioni del portale ligneo, è una delle opere, realizzate appositamente per questo spazio e questa occasione, che compongono la personale «Vegetal Devotion» (fino al 28 settembre), a cura di Marta Papini, già collaboratrice di Cecilia Alemani per la Biennale di Venezia 2022, dell’artista ultranovantenne, nata a Napoli nel 1931. Una scelta che, all’interno di un luogo storicamente dedicato alle donne, ribadisce l’intenzione dei coniugi Bonollo di dare «spazio, scrive Papini, ai soggetti tradizionalmente esclusi dallo sguardo antropocentrico e patriarcale della storia dell’arte occidentale». Le opere, composte da ritagli di carta e tessuti, omaggiano la calligrafia con frammenti di corrispondenza epistolare.
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