Bianca Cavuti
Leggi i suoi articoliFino al 7 aprile il Rautenstrauch-Joest Museum (Rjm) ospita la mostra «REVISIONS made by Warlpiri of Central Australia and Patrick Waterhouse». Un progetto in cui ben si esplicita la vocazione di questo importante museo etnografico, che come ha affermato la direttrice Nanette Snoep aspira ad essere «luogo di conversazione».
L’esposizione nasce da un’idea dell’artista britannico Patrick Waterhouse, la cui ricerca si focalizza sull’esplorazione della natura mutevole della nostra comprensione del passato. L’autore, che ha fatto del dialogo e della collaborazione una delle sue cifre distintive, ha lavorato negli ultimi otto anni a stretto contatto con un gruppo di artisti Warlpiri, una società aborigena dell’Australia Centrale.
Nel tentativo di confrontarsi con la narrazione coloniale ed elaborare delle contronarrazioni, questo gruppo di artisti, afferenti al Warlukurlangu Art Centre, ha rielaborato mappe, bandiere, fotografie e altre fonti visive d’archivio attraverso quelli che sono i segni e le modalità da loro utilizzati come mezzo di trasmissione della conoscenza.
«Quando gli esploratori bianchi hanno creato le loro mappe, spiega l’artista Otto Jungarrayi Sims, hanno suddiviso questa terra con delle linee arbitrarie e imposto dei confini di Stato. Non comprendevano la diversità delle Nazioni e dei popoli tribali che abitano questo Paese. Non sapevano che avevamo le nostre storie, le nostre vie dei canti, i nostri confini e le nostre Nazioni. Antiche storie tribali si incrociano in tutto il continente, tracce di totem appartenenti a diversi clan e gruppi linguistici della terra che chiamavano Australia».
Le fonti d’archivio costituiscono lo strumento privilegiato della ricostruzione delle vicende storiche; che cosa accade però quando coloro che di solito sono relegati a oggetto di indagine vengono coinvolti nel loro stesso processo di rappresentazione? Nonostante la colonizzazione, i gruppi linguistici Warlpiri hanno conservato un complesso di tradizioni e di pratiche che traducono una precisa visione filosofica del mondo, ed è attraverso di esse che gli autori coinvolti nel progetto hanno agito. Nello specifico, hanno utilizzato la tecnica della pittura a puntini per creare schemi e simboli basati sulla propria storia e farli interagire con le immagini di partenza. Quello che avviene in questo modo è un ribaltamento di prospettiva, una destabilizzazione attraverso cui emerge una diversa versione della storia.
Prendendo in prestito un’espressione utilizzata da Marco Meriggi nell’introduzione al libro World History, i lavori in mostra propongono una «lettura relazionale» di queste vicende. «Questo processo, si legge sul sito del museo, può essere visto come una deturpazione, come la cancellazione di ciò che c’era, o come la rivelazione di qualcosa che era sempre stato nascosto sotto la superficie.»
L’esposizione presenta opere già note, tra cui «Restricted Images» insieme ad altre, nuove, che interagiscono direttamente con l’archivio dell’ RJM, oltre a mostrare per la prima volta il video «The True Story».
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